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mercoledì 20 marzo 2013

IL RISARCIMENTO DEL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA



RESPONSABILITA' MEDICA: SUL DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO DERIVANTE DA UNA NASCITA INDESIDERATA


[PROCREAZIONE - MALFORMAZIONE DEL FETO - OMISSIONE DEGLI ACCERTAMENTI DIAGNOSTICI NECESSARI PER ESCLUDERE MALFORMAZIONI - OMESSA DIAGNOSI - RESPONSABILITA' DELLA STRUTTURA SANITARIA E DEL MEDICO - LESIONE DEL DIRITTO ALL'ABORTO -
DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO MORALE DA NASCITA INDESIDERATA IN CAPO ALLA MADRE ED AL CONCEPITO - SUSSISTE]



La sentenza della CORTE DI CASSAZIONE, Sez. III, n.16754 del 02/10/2012 è di sicuro la più recente e la più innovativa tra le sentenze pronunciate in questa materia dalla Suprema Corte, che ha sancito la responsabilità dell'operatore sanitario per le malformazioni occorse ad un nascituro, a causa di insufficienti test pre-parto, con conseguente DIRITTO AL RISARCIMENTO DEL DANNO non solo alla madre, ma anche al bambino nato con malformazioni.
Viene, dunque, riconosciuto anche per il nascituro il DIRITTO A NASCERE SANO ed a vivere una vita normale, con conseguente diritto al risarcimento dell'ingiusto danno subìto non solo per i genitori ed i più stretti congiunti (ad esempio i fratelli e le sorelle del nascituro), ma anche per lo stesso bambino in quanto condannato a vivere una vita da "non sano".
Il caso all'esame della Corte: una madre 28enne, prima del parto, chiede all'operatore sanitario di fare un test approfondito, per escludere il rischio di malformazioni del feto, avendo la donna manifestato preventivamente la volontà di esercitare il diritto all'aborto, nel caso di possibili malformazioni del nascituro. 
Il medico curante prescrive alla madre solo il cosiddetto "tri-test", omettendo però di prescriverle esami più approfonditi. 
Il nascituro, dopo il parto, presenta gravi malformazioni: la madre, il padre ed i fratelli del nascituro decidono di attivarsi per chiedere il risarcimento del danno nei confronti della struttura sanitaria (per responsabilità oggettiva) e dell'operatore sanitario (per responsabilità personale colposa). 
All'esito del giudizio tanto la struttura quanto l'operatore sanitario vengono condannati al risarcimento del danno per inesatto adempimento della prestazione sanitaria.
Afferma la Suprema Corte di Cassazione, che l'operatore avrebbe dovuto svolgere tutti gli esami richiesti dalla paziente, anche i più invasivi, per escludere possibilità di malformazioni. 
Viene liquidato un danno alla donna per violazione del principio di autodeterminazione, posto che Ella avrebbe potuto esercitare il diritto all'aborto, se avesse saputo delle malformazioni del nascituro.
La Corte di Cassazione, però, va anche oltre, affermando che anche il bambino nato con malformazioni non diagnosticate ha diritto di essere risarcito, stabilendo che gli deve essere riconsciuto un diritto al risarcimento del danno biologico e morale per essere nato ed in buona sostanza costretto a vivere una vita intera quale soggetto portatore di handicap.

Come si vedrà di seguito, quella che precede è una sentenza del tutto innovativa nell'ambito di una materia in costante evoluzione.

I PRECEDENTI DI GIURISPRUDENZA
A CONFRONTO 

Una precedente sentenza della Corte di Cassazione del 2010 pronunciata in un caso del tutto analogo, riconosceva il diritto al risarcimento da "nascita indesiderata" anche al padre e non solo alla madre, in quanto soggetti portatori di un interesse a che il nascituro fosse sano, e quindi anche titolari della scelta di interrompere la gravidanza. In quella sentenza però nulla si diceva quanto al diritto al risarcimento per il figlio nato con malformazioni.

CORTE DI CASSAZIONE, Sez. III, n.13 del 04/01/2010: in tema di responsabilità medica per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni, che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del ginecologo all'obbligazione contrattuale gravante su di lui, spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l'ordinamento civile, si incentrano sul fatto della procreazione, non rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all'interruzione della gravidanza, atteso che, agli effetti negativi del comportamento del medico, non può ritenersi estraneo il padre, che deve perciò considerarsi tra i soggetti protetti dal cd. "contratto di spedalità" (contratto atipico con effetti protettivi a favore di terzi) con il medico e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti.

Stessa fattispecie e stesso genere di sentenza anche nel 2005.

La sentenza che precede, pare avallare un orientamento piuttosto consolidato (rimasto tale appunto fino al 2012), quanto alla non riconoscibilità del diritto ad essere risarcito anche in capo al nascituro nato "non sano".
Ne è d'esempio una pronuncia del 2008 del Tribunale di Pesaro.

TRIBUNALE DI PESARO (26/05/2008): il sanitario che venga consultato, rendendo una prestazione professionale in favore di una gestante nell'ambito del servizio sanitario nazionale, in ordine ai rischi di malformazione del concepito e che per negligenza professionale non diagnostica la grave malformazione dello stesso - nella specie per erronea valutazione degli esiti di un'ecografia che mostrava la mancanza di arti di un feto alla ventesima settimana dal concepimento - risponde nei confronti dei genitori dei danni cagionati dalla nascita del figlio malformato in riferimento alla perdita di chance della gestante di optare per l'interruzione della gravidanza per ragioni terapeutiche, ma non anche nei confronti del concepito per danno da vita indesiderata, non essendo configurabile nel nostro ordinamento uno specifico diritto a non nascere "non sano". 
In tal caso - conclude il Giudice di merito - il danno risarcibile non è limitato al danno alla salute in senso stretto, ma si estende al danno non patrimoniale nella forma del danno esistenziale (danno esistenziale che - come noto - e è stato successivamente incorporato come sottocategoria di danno in un'unica voce di danno "non patrimoniale", insieme al cd. danno biologico ed al danno morale).

CASSAZIONE CIVILE, Sez. III, n.20320 del 20/10/2005: è biologico anche il danno alla vita di coppia causato dalla nascita di un figlio malformato. Infatti, la rottura dell'equilibrio familiare, dovuta alla nascita di un bimbo con malformazioni per errata diagnosi prenatale, costituisce per i genitori un danno biologico meritevole di risarcimento; nel caso di danno da nascita indesiderata anche il padre va indennizzato direttamente: costui, infatti, al pari della madre rientra tra i "soggetti protetti dal contratto" nei cui confronti la prestazione del medico è dovuta.
 
Sul medesimo solco si cita, infine, una sentenza più risalente del Tribunale di Perugia.

TRIBUNALE DI PERUGIA (28/10/2004): la nascita indesiderata determina una radicale trasformazione delle prospettiva di vita dei genitori, i quali si trovano esposti a dover misurare (non i propri specifici "valori costituzionalmente protetti") la propria vita quotidiana e l'esistenza concreta con le prevalenti esigenze della figlia, con tutti gli ovvi sacrifici che ne conseguono: le conseguenze della lesione del diritto di autodeterminazione nella scelta procreativa finiscono per consistere proprio nei "rovesciamenti forzati dell'agenda" di rilievo come danno non patrimoniale, secondo la lettura costituzionale dell'art. 2059 c.c. 

Anche nel caso da ultimo analizzato appare chiaro che la perdita della chance ad interrompere la gravidanza in presenza di malformazioni del feto non adeguatamente diagnosticate costituisce l'an debeatur per il risarcimento del danno biologico non patrimoniale in capo ai genitori; anche in questo caso, però, nulla si dice del diritto del nascituro stesso a vivere una vita normale, diritto che sarà finalmente riconosciuto con l'innovativa Sentenza della Cassazione n.16754 del 02/10/2012.

(a cura di Avv. Luca Conti del Foro di Trento).





venerdì 8 marzo 2013

DECADENZA DALLA POTESTA' GENITORIALE E CESSAZIONE DELL'OBBLIGAZIONE ALIMENTARE





L'art. 433 c.c. stabilisce l'ordine delle persone (familiari) tenute all'obbligazione degli alimenti. 
Il fondamento di quest'obbligazione consiste nel diritto all'assistenza materiale, che deve essere prestata dai familiari ai prossimi congiunti che si trovano in stato d'indigenza e, comunque, nell'impossibilità di procurarsi i autonomamente i mezzi di sostentamento.
Il diritto agli alimenti di cui all'art. 433 c.c. non può essere oggetto di cessione, nè di compensazione, non può essere sottoposto ad esecuzione forzata, è intrasmissibile, irrinunciabile e imprescrittibile. I presupposti sono il rapporto di parentela, di affinità o di adozione, e lo stato di bisogno in cui versa l'avente diritto accompagnato dall'impossibilità di provvedere al proprio mantenimento.

Art. 433 Codice Civile

All'obbligo di prestare gli alimenti sono tenuti, nell'ordine:
1) il coniuge [ 129 bis, 156 comma 3];
2) i figli legittimi o legittimati o naturali o adottivi, e, in loro mancanza, i discendenti prossimi, anche naturali;
3) i genitori [ 279] e, in loro mancanza, gli ascendenti prossimi, anche naturali; gli adottanti;
4) i generi e le nuore;
5) il suocero e la suocera;
6) i fratelli e le sorelle germani o unilaterali, con precedenza dei germani sugli unilaterali [ 439].

L'obbligazione alimentare stabilita dall'art. 433 c.c., trova, dunque, fondamento nella solidarietà familiare, stante la quale i prossimi congiunti devono contribuire agli alimenti in favore dei parenti, se costoro sono nell'impossibilità oggettiva di procurarsi autonomamente il mantenimento.
A quest'obbligazione sono tenuti, ovviamente, anche i figli (economicamente autosufficienti) nei confronti dei genitori (in stato d'indigenza), ma quest'obbligo viene meno nei confronti di quel gentore che è stato raggiunto da un provvedimento di decadenza dalla potestà genitoriale.

 
Per chiarire quest'ultimo aspetto, non si può prescindere dalla lettura dell’articolo 448 bis c.c., che disciplina la cd. “cessazione per decadenza dell’avente diritto dalla potestà dei figli”: il figlio, anche adottivo e, in sua mancanza, i discendenti prossimi non è tenuto all’adempimento dell’obbligo di prestare gli alimenti al genitore nei confronti del quale è stata pronunciata la decadenza dalla potestà e, per i fatti che non integrano i casi di indegnità di cui all’articolo 463 c.c., possono escluderlo dalla successione”.

Il figlio, dunque, rientra nella gerarchia dei congiunti prevista dall'art. 433 n.2 c.c. obbligati a prestare gli alimenti ai propri genitori; ma se nel frattempo il genitore (seppure indigente ed impossibilitato a procurarsi i mezzi di mantenimento) sia stato destinatario di un provvedimento ablativo della potestà genitoriale da parte della A.G. , l'obbligazione viene a cessare.

Questo tipo di provvedimento può intervenire - ad esempio - quando il genitore ha violato o trascurato i doveri inerenti la propria potestà genitoriale, ovvero ha abusato del proprio ruolo con pregiudizio per la prole. Questa norma ha ovviamente il suo contrappeso: qualora successivamente ad una pronuncia ablativa della potestà intervengano fatti tali da giustificare un provvedimento di ripristino della potestà gentoriale, l'obbligazione alimentare torna a rivivere in favore del genitore.

Nell’ambito degli obblighi che sorgono a carico dei genitori per effetto della filiazione, l'assistenza morale nei confronti dei figli è stata valorizzata dalla Legge n.219/2012, che stabilisce espressamente: il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.

Infatti, l'art. 315 bis c.c. precisa che :
1. Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.
2. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.
3. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.
4. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa.
(Articolo aggiunto dall’art. 1, comma 8, L. 10 dicembre 2012, n. 219)

I doveri dei genitori rispetto ai figli non vengono meno per effetto della decadenza dalla potestà genitoriale; quindi anche il genitore, nei cui confronti  sia intervenuto un provvedimento ablativo della potestà genitoriale, resta pur sempre obbligato materialmente e moralmente nei confronti dei figli, e qualora si sia reso colpevole anche della violazione degli obblighi di assistenza familiare per avere malversato o dilapidato i beni del figlio minore  o del pupillo o del coniuge, ovvero ancora per avere fatto mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti  o al coniuge che non sia legalmente separato per sua colpa, incorre pure nel reato penale sanzionato dall'art. 570 c.p. La legge, che ha equiparato lo stato giuridico del figlio nato fuori dal matrimonio ai figli legittimi nati da un unione coniugale, specifica anche che la nozione di abbandono morale e materiale dei figli deve essere collegata alla provata irrecuperabilità delle capacità genitoriali in un tempo ragionevole da parte dei genitori, fermo restando che le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia (art. 2, comma 1 lett. n l. 219/2012).

In conclusione lo scopo della norma in rubrica è quello di  responsabilizzare maggiormente la posizione dei genitori rispetto ai figli, richiamandoli ai doveri di assistenza morale e materiale, istruzione ed educazione cui sono tenuti verso la prole.

sabato 2 marzo 2013

VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA FAMILIARE


Art. 570 c.p.
[I]. Chiunque, abbandonando il domicilio domestico [452, 1432, 146 c.c.], o comunque serbando una condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori (1) [147, 316 c.c.]o alla qualità di coniuge [143, 146 c.c.], è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da 103 euro a 1.032 euro.
[II]. Le dette pene si applicano congiuntamente a chi:
1) malversa o dilapida i beni del figlio minore [o del pupillo] (2) o del coniuge;
2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti [540; 75 c.c.] di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti [540; 75 c.c.] o al coniuge, il quale non sia legalmente separato [per sua colpa] (3) [146, 150, 151 c.c.].
[III]. Il delitto è punibile a querela della persona offesa [120] salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2 del precedente comma (4).
[IV]. Le disposizioni di questo articolo non si applicano se il fatto è preveduto come più grave reato da un'altra disposizione di legge.

Art. 147 c.c.
[I]. Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l'obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli [107, 261, 279, 330, 333; 570, 571, 572 c.p.; 30 Cost.].

Art. 148 c.c.
[I]. I coniugi devono adempiere l'obbligazione prevista nell'articolo precedente in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo [1433, 1861c, 3242] (2). Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti [302 Cost.], gli altri ascendenti legittimi o naturali, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari, affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli.
[II]. In caso di inadempimento il presidente del tribunale, su istanza di chiunque vi ha interesse, sentito l'inadempiente ed assunte informazioni, può ordinare con decreto che una quota dei redditi dell'obbligato, in proporzione agli stessi, sia versata direttamente all'altro coniuge o a chi sopporta le spese per il mantenimento, l'istruzione e l'educazione della prole.
[III]. Il decreto, notificato agli interessati ed al terzo debitore, costituisce titolo esecutivo [474 c.p.c.], ma le parti ed il terzo debitore possono proporre opposizione nel termine di venti giorni dalla notifica [642 c.p.c.].
[IV]. L'opposizione è regolata dalle norme relative all'opposizione al decreto di ingiunzione [645 c.p.c.] in quanto applicabili.
[V]. Le parti ed il terzo debitore possono sempre chiedere, con le forme del processo ordinario, la modificazione e la revoca del provvedimento.




ART. 570 C.P. VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI 
DI ASSISTENZA FAMILIARE

Un problema, che spesso affligge le coppie separate, soprattutto in un momento di grave crisi congiunturale, ruota attorno all'obbligo a carico del genitore di contribuire al mantenimento della prole.
La viuolazione di quest'obbligo, oltre ad avere implicazioni sotto il profilo civilistico, ha risvolti anche sotto il profilo penale.
Recita infatti l'art. 570 c.p.: chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all'ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei genitori, o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da lire duecentomila a due milioni.
Le dette pene si applicano congiuntamente a chi:
1) malversa o dilapida i beni del figlio minore  o del pupillo o del coniuge;
2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore , ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti  o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2 del precedente comma.
Le disposizioni di questo articolo non si applicano se il fatto è preveduto come più grave reato da un'altra disposizione di legge.
Ma se l'obbligato al mantenimento è disoccupato o cassintegrato, ed in ogni caso non beneficia di un reddito sufficiente a garantire la propria sussistenza e contemporaneamente a contribuire ai bisogni della prole, commette o non commette il reato in rubrica?
Di questo problema si è recentemente occupata la Suprema Corte di Cassazione.
La Suprema Corte di Cassazione, con la Sentenza n.7372/2013 ha chiarito che "non commette reato il papà disoccupato che non versa l'assegno di mantenimento al figlio, se ha un'indennità di disoccupazione insufficiente a garantirgli il minimo sostentamento".
La vicenda di cui si è occupata la Suprema Corte riguardava un uomo, cui era stato contestato il mancato versamento del mantenimento per il figlio minorenne, necessario per assicurargli i mezzi di sussistenza. L'inadempienza, protrattasi per alcuni mesi, aveva indotto la corte territoriale ad emettere una sentenza di condanna nei confronti del padre che, dopo essere stata impugnata, era stata confermata in appello. 
L'omesso pagamento del mantenimento, osservavano i giudici territoriali, costituisce responsabilità per il reato di cui all'art. 570 c.p. perché è "il comprovato stato di disoccupazione a fronte della altrettanto accertata percezione della indennità di disoccupazione senza che questa, neppure in minima parte, sia stata destinata al sostentamento del minore".
L'uomo proponeva ricorso in Cassazione, deducendo la violazione dell'art. 45 c.p., perché la violazione dei doveri era imputabile non alla volontà dell'uomo, ma a un'oggettiva impossibilità economica, sopravvenuta nel tempo.
La Suprema Corte accoglieva il ricorso, così motivando il provvedimento: "la condanna per il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare – spiegano i giudici – non può prescindere da un vaglio scrupoloso circa la concreta «incidenza del riscontrato stato di disoccupazione» sulla possibilità di adempiere puntualmente agli obblighi di assistenza che gravano sul genitore, considerando la posizione della prole. Infatti, se il solo stato di disoccupazione, non è elemento sufficiente per escludere il dovere di fornire sostentamento alla famiglia, può però esserlo la documentazione, allegata da parte dell'interessato, che comprova «difficoltà economiche tali da tradursi in un vero e proprio stato di indigenza economica".  
Occorre, quindi, che le corti territoriali, prima di emettere sentenza di condanna per il reato in rubrica, accertino scrupolosamente se lo stato di disoccupazione del genitore sia realmente legato a uno stato di indigenza, visto che l'obbligato potrebbe disporre di altri mezzi economici, diversi da quelli di fonte lavorativa, che gli permetterebbero di provvedere ai versamenti. 
Evidente che nel caso all'esame della Suprema Corte questa ricognizione non c'è stata, e di qui l'annullamento, con rinvio, della decisione impugnata dal padre disoccupato.