LA RILEVANZA DEL PATTEGGIAMENTO NEL PROCESSO CIVILE
LA RILEVANZA DELLA SENTENZA DI APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI (PATTEGGIAMENTO) NEL PROCESSO CIVILE PER DANNI
Un
problema particolarmente dibattuto negli anni trascorsi ed oggi apparentemente
superato (ma non del tutto) è quello della rilevanza del “patteggiamento” nel
processo civile: altrimenti detto, quale valore o rilevanza si deve conferire
alla “applicazione della pena richiesta dalle parti” nel giudizio civile di
danno?
Come
noto il combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 185 c.p. stabilisce che
qualsiasi fatto illecito costituente reato obbliga al risarcimento del danno
chi l’ha cagionato in favore della parte offesa.
Certuni
sostengono - erroneamente - che il rimedio premiale del patteggiamento, non
essendo equiparabile ad una sentenza penale di condanna resa all’esito di un’istruttoria
dibattimentale e non contenendo un’ammissione esplicita di responsabilità dell’imputato
in ordine al “fatto-reato” ascrittogli, non avrebbe alcun rilievo sotto il
profilo probatorio nel conseguente giudizio civile di danno.
E’
noto, infatti, che ove l’imputato benefici dell’applicazione della pena concordata
col P.M. (art.444 c.p.p.), il Giudice (GUP) non può decidere sulla richiesta di
danno promossa dalla parte offesa dal reato (la cd. parte civile), che pertanto
si vede costretta a rivolgersi al giudice civile per vedersi riconosciuto il
diritto al risarcimento del danno morale e/o patrimoniale che ha sofferto.
A
questo punto, come si deve comportare il giudice civile rispetto alla sentenza
di patteggiamento che il danneggiato ed attore nel processo civile chiede di
allegare come elemento di prova della responsabilità del convenuto a giudizio?
Chi
sostiene che il patteggiamento non abbia alcun rilievo nel giudizio civile di
danno sbaglia e l’errore trae spesso origine da un’erronea interpretazione
dell’istituto del patteggiamento, basata sul fatto che la sentenza di
applicazione della pena su richiesta non fa stato nel processo civile.
Ora,
se per un verso è vero che il patteggiamento non fa stato nel giudizio civile
di danno, è altrettanto che vero che allo stesso non può affibbiarsi la sola paternità di rimedio giuridico dal carattere premiale (corrispondente alla diminuzione
della pena fino ad 1/3) collegato al contenimento delle spese processuali ed
all’aggiramento delle lungaggini processuali connesse all’istruttoria
dibattimentale. Anche perché chi patteggia, rinuncia al diritto di potersi difendere in giudizio accettando le risultanze probatorie emerse nel corso delle indagni penali.
Per
altro verso, secondo un orientamento ormai consolidato della Giurisprudenza di
legittimità il patteggiamento implica pur sempre “un riconoscimento da parte dell’imputato del fatto-reato narrato dal
denunciante”
Qual
è dunque l’efficacia che il giudice civile deve conferire alla sentenza di
patteggiamento, con cui con cui l’imputato (poi convenuto nel processo civile) ha definito il processo penale?
In
vero, il patteggiamento contiene un implicito accertamento del “fatto-reato” contestato all’imputato,
una sorta di cristallizzazione dei fatti narrati dalla parte offesa nella denuncia introduttiva, a partire
dai quali il giudice civile ha il dovere di esperire le prove richieste dalle
parti, da porre successivamente a fondamento della propria decisione.
In
proposito, si richiama l’orientamento della Corte di Cassazione di cui alle
sentenze n.9546/2013 e 17289/2006 a tenore delle quali: la sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce
per il giudice civile un importante elemento di prova (…) pertanto la sentenza
di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come una
sentenza di condanna, presupponendo pur sempre un’ammissione di colpa, esonera
la controparte dall’onere della prova (ex
multis si vedano anche Corte d’Appello di Milano, II sezione civile, dd.
23/0/2015, n.2665; Corte d’Appello di Milano, II sezione civile, dd.
19/03/2014, n.1121).
D
particolare pregio è una recente pronuncia della Corte d'Appello di Milano (sentenza n.1121 del 19/03/2014): con la sentenza n. 336 del
18 dicembre 2009 la Corte Costituzionale ha affermato che la circostanza che
l'imputato, nello stipulare l'accordo sul rito e sul merito della regiudicanda
penale, accetti una determinata condanna chiedendone o consentendone
l'applicazione, sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto a
quei fini di non contestare il fatto e la propria responsabilità (…) quanto
alla valenza probatoria della sentenza di patteggiamento
nel giudizio civile,
secondo costante giurisprudenza di legittimità la sentenza penale di
applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce elemento di prova per il
Giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le
ragioni per cui l'imputato abbia ammesso una sua insussistente responsabilità
ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto
riconoscimento, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato
dunque come prova nel corrispondente giudizio di
responsabilità in sede civile.
In definitiva, si può ragionevolmente
concludere che il patteggiamento o sentenza di applicazione della pena su
richiesta delle parti costituisce un elemento di prova che va oltre il mero
indizio e che il giudice civile ha il dovere di considerare quando è chiamato a
decidere sulla richiesta di danno promossa dalla parte offesa dal reato, sia
rapportandolo con le prove orali richieste dalle parti sia potendosene al limite anche discostare
motivatamente, allorché le prove orali e/o tecniche esperite nel giudizio civile
portino ad evidenze differenti rispetto a quanto emerso nel corso delle indagini
penali.
(a cura di Avv. Luca Conti del foro di Trento).
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