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lunedì 6 agosto 2012

L'ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI









L'ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER I FIGLI NON ECONOMICAMENTE AUTOSUFFICIENTI: CHI E' TENUTO A CORRISPONDERLO E FINO A QUANDO?






CENNI STORICI SULL'EVOLUZIONE DELLA NORMATIV
IN MATERIA DI MANTENIMENTO DEI FIGLI

Una tra le domande più ricorrenti che i genitori separati o divorziati pongono all'avvocato riguarda l'assegno di mantenimento per i figli non economicamente autosufficienti: chi è tenuto a versarlo ed in quale misura? Ed ancora: sino a quando perdura l'obbligo per i genitori di contribuire al mantenimento per i figli?
Anzitutto, si deve sfatare un luogo comune molto diffuso nella società civile, secondo il quale al compimento del diciottesimo anno d'età cesserebbe l'obbligo posto a carico dei genitori di contribuire al mantenimento dei figli.
Al contrario, detto obbligo permane sino a quando essi non abbiano raggiunto l'autosufficienza economica, ovvero quando i figli - ultimato il loro percorso di studi - si sottraggano colpevolmente a possobili fonti di guadagno, rifiutando senza giustificato motivo opportunità di lavoro corrispondenti al percorso di studi intrapreso.

Il quadro normativo relativo al mantenimento dei figli ha avuto un'importante evoluzione a partire dal 2006, quando con la legge n.54/2006 si è introdotto nell'ordinamento non solo l'affidamento condiviso dei figli (parificando la figura del padre a quella della madre), ma si è anche codificata la figura giuridica dei figli naturali nati da coppie conviventi, che ha poi trovato il suo naturale sbocco nella legge n.219/2012 e nel decreto attuativo n.154/2013 che stravolgendo l'assetto del Titolo IX del Libro I del Codice Civile hanno equiparato la condizione dei figli naturali a quella dei figli legittimi ed a quella dei figli adottivi, i quali ultimi avevano già trovato equiparazione rispetto ai primi con la legge n.184/1983.

Secondo le intenzioni del legislatore, l'obbligo di contribuire al mantenimento dei figli è il più importante tra i doveri posti a carico dei genitori, l'aspetto fondamentale della cosiddetta responsabilità genitoriale connessa al rapporto di filiazione così come oggi espressamente previsto dal Titolo IX Libro I c.c.

Entrambi i genitori sono tenuti a contribuire al mantenimento dei figli nella misura corrispondente (o proporzionale) al proprio reddito; l'inadempimento ingiustificato di quest'obbligo è non solo sinonimo di disinteresse del genitore rispetto ai bisogni della prole, ma costituisce anche illecito penale sanzionato dall'art. 570 c.p. (violazione degli obblighi di assistenza famigliare). 

Fermo restando l'affidamento condiviso dei figli, l'assegno di mantenimento deve essere versato dal genitore non collocatario in favore del genitore presso il quale i figli trascorrono la maggior parte del tempo: lo scopo è quello di contribuire ai maggiori costi per vitto ed alloggio (ed altre spese quotidiane) che il genitore collocatario deve sostenere in funzione del maggior tempo che i figli trascorrono con lui.

L'assegno periodico di mantenimento è spesso fonte di liti tra i genitori, perché nella prassi il genitore non allocatario tende a confondere l'assegno di mantenimento per i figli che versa brevi manu all'altro genitore come un indebito arricchimento di quest'ultimo, anziché come la doverosa contribuzione  al fabbisogno della prole: altrimenti detto, se prima della disgregazione del nucleo famigliare (sia esso di fatto oppure coniugale) entrambi i genitori davano spontaneamente il proprio contributo al menage famigliare, perché non farlo parimenti a seguito della separazione?

Del resto, che entrambi i genitori debbano contribuire al fabbisogno della prole è principio acquisito e sancito già dall'art. 316 bis c.c. che regola i rapporti generali tra genitori e figli.

Il mantenimento dei figli può essere erogato in forma diretta oppure indiretta: nel primo caso ciascun genitore contribuisce direttamente al fabbisogno dei figli in relazione al tempo trascorso con loro, che in questo caso si ripartisce al 50% con l'altro genitore; nel secondo caso il genitore non allocatario versa all'altro un assegno periodico, che tenga conto delle attuali esigenze dei figli, del pregresso tenore di vita goduto in costanza di convivenza, del tempo di permanenza dei figli presso ciascun genitore e delle diverse possibilità economiche delle due figure genitoriali.

Fatte queste doverose premesse per inquadrare la tematica in esame, si passi ora ad esaminare come la legge n.219/2012 ha messo mano al Titolo IX del Libro I c.c., riformando integralmente la materia. 

 
LA RIFORMA DEL TITOLO IX LIBRO I DEL CODICE CIVILE E L'INTRODUZIONE DEL CONCETTO DI RESPONSABILITA' GENITORIALE

Fino alla riforma del Titolo IX Libro I del Codice Civile la norma fondamentale cui fare riferimento in materia di mantenimento dei figli era l'art. 147 c.c. a tenore del quale "il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l'obbligo di mantenere, istruire ed educare i figli nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali ed aspirazioni". 

Con l'entrata in vigore della legge n.219/2012 e del decreto attuativo n.154/2013 le norme di riferimento in  materia sono divenute gli artt. 315 bis e ss. c.c. 
Infatti, l'art.147 c.c. che pure non è stato abrogato ma semplicemente riformulato, creava una sorta di disparità nel trattamento tra figli legittimi (nati all'interno del matrimonio) e figli naturali (nati all'interno di coppie di fatto); con la riforma appena citata il legislatore ha parificato il trattamento dei figli, eliminando la distinzione tra figli legittimi, naturali ed adottivi ed introducendo nell'ordinamento il concetto di responsabilità genitoriale, che è andato a sostituirsi a quello di potestà genitoriale.
Infatti, gli artt. 147 e 148 c.c. oggi si limitano a rimandare agli artt. 315 bis e 316 bis c.c. (introdotti dal decreto legislativo n.154/2013 in attuazione dalla legge delega n.219/2012) che costituiscono il corpus fondamentale dei "diritti e doveri dei figli".

Ma prima di esaminare nel dettaglio le norme di riferimento, è bene precisare che cosa s'intende per responsabilità genitoriale: trattasi di quella situazione giuridica complessa idonea a riassumere i doveri, gli obblighi ed i diritti in capo al genitore derivanti dal rapporto di filiazione, che viene a sostituire il tradizionale concetto di potestà. 

Vista la parificazione (art.315 c.c., libro I, titolo IX, capo I) tra figli naturali (nati fuori del vincolo matrimoniale) e figli legittimi (nati all'interno del vincolo matrimoniale) espressamente disciplinata dall'art. 315 c.c., secondo il quale "tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico", il successivo art.315 bis c.c. dispone che:
"il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito ed assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. 
Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.
Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato (art.336 bis c.c.) in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.
Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa". 

Appare subito chiaro che l'obbligazione di mantenimento per i figli non si esaurisce nel pagamento dei soli alimenti, ma riguarda anche tutte le altre spese che attengono alla vita di relazione dei figli nel contesto sociale in cui vivono: trattasi di un obbligo che trae origine dal cosiddetto rapporto di solidarietà o di filiazione tra genitori e figli, e che include anche l'istruzione, l'educazione e l'assistenza morale, tenuto conto delle inclinazioni dei figli.

La riforma del Libro I Titolo IX del codice civile attuata dal D. Lgs. 154/2013 ha aggiunto, tra i doveri dei genitori rispetto ai figli, anche l'obbligo dell'assistenza morale attraverso il richiamo operato dall'art. 315 bis c.c.

In base alla normativa attualmente vigente, i genitori sono tenuti per effetto del solo rapporto di filiazione a fare fronte ad una molteplicità di esigenze dei figli: sono obbligati non solo a mantenerli, e dunque a fornire loro le risorse economiche per il vivere quotidiano, per le attività scolastiche e parascolastiche, per le spese mediche e per le attività ricreative, ma anche a curarne l'istruzione e l'educazione, nonché a garantirne il giusto sostegno morale nell'affrontare i problemi della quotidianità.

Inoltre, grazie al richiamo operato dall'art. 317 bis c.c. i genitori devono anche garantire che i figli minorenni coltivino con gli ascendenti (nonni) e le rispettive linee parentali significativi rapporti: "gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. L'ascendente al quale è impedito l'esercizio di tale diritto può ricorrere al giudice del luogo di residenza abituale del minore affinché siano adottati i provvedimenti più idonei nell'esclusivo interesse del minore".


LE NORME FONDAMENTALI E LA RIFORMA DEL 2013

Art. 147 c.c. (doveri dei genitori verso i figli).
Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l'obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall'art. 315 bis c.c.

Il Decreto Legislativo n.154/2013 ha inserito nel Codice Civile il Capo I all'interno del Titolo IX - Libro I rubricandolo come "dei diritti e doveri del figlio": tra le norme recentemente introdotte c'è appunto l'art.315 bis c.c. cui fa esplicito rimando il succitato art. 147 c.c.

L'art.315 bis c.c. è stato inserito all'interno del Titolo IX - Libro I del Codice Civile, che si occupa della già citata "responsabilità genitoriale" che recependo la legislazione comunitaria ha sostituito l'obsoleto concetto di "potestà genitoriale".

Art.315 bis c.c. (diritti e doveri del figlio).
[I]. Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.
[II]. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti.
[III]. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.
[IV]. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia, finché convive con essa.

Il successivo art. 316 c.c. disciplina, invece, la cosiddetta "responsabilità genitoriale" ossia quell'insieme di diritti e di doveri connessi al rapporto di filiazione.

Art. 316 c.c. (responsabilità genitoriale).
[I]. Entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale che é esercitata di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio. I genitori di comune accordo stabiliscono la residenza abituale del minore.
[II]. In caso di contrasto su questioni di particolare importanza ciascuno dei genitori può ricorrere senza formalità al giudice indicando i provvedimenti che ritiene più idonei.
[III]. Il giudice, sentiti i genitori e disposto l'ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento, suggerisce le determinazioni che ritiene più utili nell'interesse del figlio e dell'unità familiare. Se il contrasto permane il giudice attribuisce il potere di decisione a quello dei genitori che, nel singolo caso, ritiene il più idoneo a curare l'interesse del figlio.
[IV]. Il genitore che ha riconosciuto il figlio esercita la responsabilità genitoriale su di lui. Se il riconoscimento del figlio, nato fuori del matrimonio, è fatto dai genitori, l'esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi.
[V]. Il genitore che non esercita la responsabilità genitoriale vigila sull'istruzione, sull'educazione e sulle condizioni di vita del figlio.

Art.316 bis c.c. (concorso nel mantenimento dei figli).
[I]. I genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. Quando i genitori non hanno mezzi sufficienti, gli altri ascendenti, in ordine di prossimità, sono tenuti a fornire ai genitori stessi i mezzi necessari affinché possano adempiere i loro doveri nei confronti dei figli.
[II]. In caso di inadempimento il presidente del tribunale, su istanza di chiunque vi ha interesse, sentito l'inadempiente ed assunte informazioni, può ordinare con decreto che una quota dei redditi dell'obbligato, in proporzione agli stessi, sia versata direttamente all'altro genitore o a chi sopporta le spese per il mantenimento, l'istruzione e l'educazione della prole.
[III]. Il decreto, notificato agli interessati ed al terzo debitore, costituisce titolo esecutivo, ma le parti ed il terzo debitore possono proporre opposizione nel termine di venti giorni dalla notifica.
[IV]. L'opposizione è regolata dalle norme relative all'opposizione al decreto di ingiunzione, in quanto applicabili.
[V]. Le parti ed il terzo debitore possono sempre chiedere, con le forme del processo ordinario, la modificazione e la revoca del provvedimento.

Come già accennato, un'altra norma di recente introduzione è quella che mira a salvaguardare, ed anzi ad incentivare, i rapporti tra i nipoti e gli ascendenti (nonni).

Art. 317 bis c.c. (rapporti con gli ascendenti).
[I]. Gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni.
[II]. L'ascendente al quale è impedito l'esercizio di tale diritto può ricorrere al giudice del luogo di residenza abituale del minore, affinché siano adottati i provvedimenti più idonei nell'esclusivo interesse del minore. Si applica l'art. 336 secondo comma c.c.

Come si evince dal dettato normativo, le vigenti norme introdotte introdotte nel Titolo IX - Libro Primo del codice civile non solo hanno parificato in modo assoluto le due figure genitoriali, che hanno ora pari diritti e pari doveri rispetto ai figli: entrambi, infatti, devono concorrere al benessere ed alla crescita crescita della prole in eguale misura secondo le rispettive capacità; ed allo stesso modo i figli hanno diritto di conservare e coltivare significativi rapporti con entrambe le figure genitoriali e con i parenti di questi. Ma vi è di più. 
Le norme appena citate si applicano tanto ai figli nati all'interno del matrimonio (figli legittimi), quanto a quelli nati fuori del matrimonio (figli naturali). Inoltre, è oggi tutelata la figura dei nonni, che si ad oggi era stata del tutto o quasi ignorata dal Legislatore.

Alla luce di quanto precede, non potrà più accadere che un minore sia privato da uno dei due genitori dell'altra figura genitoriale se non per giustificato motivo; allo stesso modo i nonni non potranno essere privati del diritto, sino ad oggi troppo compresso, di veder crescere i propri nipoti e di trasmettere loro i propri valori.

L'assoluta parificazione dei figli naturali rispetto ai figli legittimi si desume anche e soprattutto dal fatto che le finalità di cui agli articoli precedenti sono perseguite secondo la disciplina unitaria stabilita dal Capo II (artt.337 bis e ss. c.c.) che regola l'esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, divorzio, scioglimento degli effetti civili del matrimonio, annullamento e nullità del matrimonio, ovvero all'esito dei procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio.


L'ESERCIZIO DELLA RESPONSABILITA' GENITORIALE A SEGUITO DI SEPARAZIONE, DIVORZIO E SCIOGLIMENTO DELLA FAMIGLIA DI FATTO

A questo punto vediamo cosa dispongono gli artt. 337 bis e ss. c.c. per quanto riguarda il mantenimento dei figli e l'assegnazione della dimora familiare all'esito del giudizio di separazione, di divorzio ovvero in seguito allo scioglimento della famiglia di fatto.

A questo riguardo si tenga presente che gli artt. 155 bis e s.s. c.c. sono stati interamente abrogati e sostituiti dal Capo II del Titolo IX - Libro I c.c.

Art. 337 ter c.c. (provvedimenti riguardo ai figli).
[I]. Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
[II]. Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, nei procedimenti di cui all'art. 337 bis c.c. il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all'istruzione e all'educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all'interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l'affidamento familiare. All'attuazione dei provvedimenti relativi all'affidamento della prole provvede il giudice del merito e, nel caso di affidamento familiare, anche d'ufficio. A tal fine copia del provvedimento di affidamento è trasmessa, a cura del pubblico ministero, al giudice tutelare.
[III]. La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente. Qualora il genitore non si attenga alle condizioni dettate, il giudice valuterà detto comportamento anche al fine della modifica delle modalità di affidamento.
[IV]. Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito. Il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:
1) le attuali esigenze del figlio.
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
4) le risorse economiche di entrambi i genitori.
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
[V]. L'assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.
[VI]. Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione anche se intestati a soggetti diversi.

Dalla norma appena citata emergono tre importanti concetti: 
1) l'obbligo di mantenimento è posto a carico di entrambi i genitori senza distinzione tra madre e padre; 
2) salvo diverso accordo intervenuto tra i genitori, essi contribuiscono al fabbisogno dei figli in proporzione al proprio reddito, tenuto anche conto del lavoro domestico e di chi sovraindente al menage famigliare; 
3) per realizzare le finalità di cui sopra, il giudice ha il potere di disporre un accertamento di polizia tributaria al fine di acccertare l'effettiva consistenza patrimoniale e reddituale dei genitori.

Per quanto riguarda l'assegnazione della dimora famigliare soccorre l'art. 337 sexies c.c. secondo il quale: "(...) il godimento della casa famigliare è attribuito tenuto prioritariamente conto dell'interesse dei figli. Dell'assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, tenuto conto dell'eventuale titolo di proprietà (...)".

In considerazione di ques'ultima norma, l'assegnazione della dimora famigliare ad un genitore piuttosto che all'altro dipende oggi esclusivamente dall'interesse dei figli a permanere nel loro habitat: ne segue che se i figli minorenni sono allocati prevalentamente presso la madre, il godimento della casa famigliare sarà assegnato pro tempore alla madre; al contrario, se i figli venissero allocati presso il padre, il godimento della casa sarà assegnato a quest'ultimo. 


LA CESSAZIONE DELL'OBBLIGO DI MANTENIMENTO DEI FIGLI: CONSIDERAZIONI FINALI

Tanto chiarito e sfatato il luogo comune stante il quale "i figli perderebbero il diritto al mantenimento una volta raggiunta la maggiore età", è venuto ora il momento di rispondere al quesito introduttivo: cosa accade quando i figli raggiungono la maggiore età e non sono più soggetti alla "responsabilità genitoriale"?

In questo caso, soccorre l'art. 337 septies c.c., che disciplina i provvedimenti in favore dei figli divenuti maggiorenni.

Art.337 septies c.c. (disposizioni in favore dei figli maggiorenni).
[I]. Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all'avente diritto.
[II]. Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori.

Dalla norma appena citata emerge con chiarezza che il diritto al mantenimento per i figli non cessa col raggiungimento della maggiore età, mentre perdura tale obbligo a carico di entrambi i genitori anche in costanza di separazione e successivamente di divorzio, fin tanto che i beneficiari del mantenimento non abbiano raggiunto l'indipendenza economica.

La norma, tuttavia, non deve trarre in inganno: il figlio maggiorenne non ha diritto di essere mantenuto sic et simpliter sine die senza impegnarsi nel contempo nel proprio percorso di studi, ovvero nella ricerca di un'occupazione lavorativa: altrimenti detto, il figlio che - raggiunta la maggiore età - non studia e/o non lavora, perde il diritto al mantenimento, ma sarà il genitore a dovere ricorrere all'Autorità Giudiziaria e fornire la prova che il figlio non studia e/o che ha rifiutato senza giustificato motivo proposte di lavoro corrispondenti al percorso di studi intrapreso.

Ma come si calcola l'assegno di mantenimento che il genitore non allocatario deve corrispondere per il sostentamento dei figli conviventi con l'altro genitore?

Come si è già detto, gli artt. 147 e 316 bis c.c. prevedono un obbligo generale di mantenimento della prole posto in egual misura tra i genitori, tenuto conto delle rispettive capacità economico / reddituali e dell'eventuale lavoro domestico.

E si ricordi che quest'obbligo discende automaticamente dal fenomeno della filiazione e da esso dipende strettamente: in altri termini, non è il vincolo di coniugio che fa sorgere l’obbligo di mantenimento, bensì - come affermato dalla Suprema Corte di Cassazione - è la sola procreazione che fa sorgere a favore della prole il diritto ad essere mantenuta dai genitori, in base alle proprie possibilità economiche ed all'effettiva capacità lavorativa.

Afferma in proposito la Corte di Cassazione: la filiazione naturale fa sorgere a carico del genitore tutti i doveri di cui all'art. 147 c.c. propri della procreazione legittima (artt. 258-261 c.c.), compreso quello di mantenimento che, unitamente ai doveri di educare e istruire i figli, obbliga i genitori ex art. 148 c.c. a far fronte a una molteplicità di esigenze; non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all'aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale. Nella determinazione del contributo previsto dall'art. 277, comma 2, c.c. per il mantenimento del figlio naturale nato fuori del vincolo di matrimonio, a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il giudice ai sensi dell'art. 155 c.c., applicabile anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, in virtù del rinvio contenuto nell'art. 4 della legge n.54 del 2006, deve tener conto non solo delle esigenze attuali del figlio, ma anche, tra l'altro, delle risorse economiche dei genitori, in modo da realizzare il principio generale di cui all'art. 148 c.c., secondo cui i genitori devono concorrere al mantenimento dei figli in proporzione delle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo. (Cass. civ. Sez. I dd. 14/05/2010, n. 11772; ed in senso conforme Cass. civ. Sez. I dd. 15/07/2010, n. 16612)

L’obbligo del genitore di mantenere i figli trova il suo corrispettivo nel diritto assolutamente personale del figlio di essere mantenuto, un diritto che non può essere rinunciato, se non quando il figlio sia divenuto economicamente autosufficiente. A riprova di ciò, la giurisprudenza di merito e di legittimità affermano che: l'obbligo in capo ai genitori di contribuire al mantenimento dei figli derivante dall'art. 147 c.c. non cessa automaticamente con la maggiore età, ma dura finché questi non raggiungono l'autosufficienza economica. In caso di separazione personale dei genitori, uno dei due può essere tenuto a versare direttamente ai figli maggiorenni l'assegno di mantenimento loro destinato. (si veda ad esempio, Tribunale di Novara, dd. 01/06/2012)

Ed ancora: in tema di separazione o divorzio, l'obbligo di versare il contributo di mantenimento per i figli maggiorenni al coniuge presso il quale essi vivono (ovvero a loro direttamente) cessa solo ove il genitore obbligato provi che essi abbiano raggiunto l'indipendenza economica, percependo un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali condizioni di mercato, ovvero che essi si sottraggano volontariamente allo svolgimento di attività lavorativa adeguata. (ex multis cfr. Cass. Civ. Sez. I, dd. 22/03/2012, n. 4555; Cass. Civ. Sez. I dd. 13/12/2012, n. 22951)

Alla luce della giurisprudenza appena richiamata, il diritto del figlio ad essere mantenuto viene meno in tre casi:
1) quando il figlio maggiorenne non sia in grado di provvedere alle proprie esigenze di vita per colpa propria (si pensi al figlio maggiorenne che non studia e si rifiuta di lavorare);
2) quando il figlio non si ponga in condizione o rifiuti di procurarsi un proprio reddito, mediante l’espletamento di attività lavorativa;
3) quando il figlio sia andato a vivere in un altro contesto familiare, ovvero si presume che sia in grado di procurarsi da sé le sostanze per vivere. 

A questo riguardo, precisa il Tribunale di Roma: fermo restando, in linea di principio, che i genitori hanno l’obbligo di mantenere i figli (anche maggiorenni) fino a quando essi non conseguano l’autonomia economica, salvo il caso di loro negligenza nella ricerca di una attività lavorativa consona alla loro preparazione, alle loro capacità ed agli studi da essi svolti, senza che possa essere fissato a priori ai genitori un termine finale dell’obbligo su di loro incombente, va cancellato l’obbligo di mantenimento qualora: i figli maggiorenni non compaiano in Tribunale, sebbene regolarmente convocati, per esporre le loro ragioni ed opporsi alla rituale richiesta del genitore obbligato di sospendere il loro mantenimento; quando, malgrado la rituale convocazione, non compaia in Tribunale la loro madre, che si oppone in giudizio alla cessazione dell’obbligo paterno; quando i figli hanno molto presto interrotto gli studi, conseguendo solo un diploma medio di assai basso livello, che avrebbe dovuto indurli ad accettare un lavoro modesto; quando è provato che il figlio maggiorenne aveva da non poco tempo (alcuni anni) intrapreso in proprio un’attività di grafico, attività che il Tribunale ha motivo di presumere definitivamente avviata; quando il figlio più piccolo, anch’esso maggiorenne ed asseritamente privo di redditi, risulti, dalle visure catastali, proprietario di una unità abitativa classificata in A/2. Diversamente opinando, sul genitore incomberebbe l’assurdo onere di attivarsi giudizialmente in prima persona, per essere esentato da un obbligo a suo carico non più esistente, dando la prova che la prole non abbia profuso ogni ragionevole impegno per una sua effettiva collocazione nel mondo del lavoro commisurata alle sue concrete capacità ed aspirazioni. (Tribunale di Roma, ord. dd. 23/03/2012)

E' chiaro che spetta ai giudici di merito di scandagliare ogni singolo contesto familiare, prima di decidere se un figlio maggiorenne ha diritto al mantenimento, e se sì in quale misura.

La giurisprudenza oggi prevalente ritiene che, quando il figlio raggiunge l'autosufficienza economica anche per un limitato periodo di tempo, viene meno il suo diritto al mantenimento e non torna a rivivere con la ricaduta nella dipendenza da altri. 

Sembrerebbe, infatti, che la giurisprudenza di merito e di legittimità siano orientate a perseguire la cosiddetta "strada del rigore”, ritenendo che l’aver svolto un'attività lavorativa dimostri di per sé la potenziale produzione di reddito e quindi la possibilità di acquisire una indipendenza economica. 

Precisa la Suprema Corte di Cassazione: in caso di separazione o divorzio fra i genitori, l'obbligo di mantenere i figli maggiorenni cessa solo ove il genitore obbligato provi che essi abbiano raggiunto l'indipendenza economica, percependo un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali condizioni di mercato, ovvero che essi si sottraggano volontariamente allo svolgimento di un'attività lavorativa adeguata. In applicazione del suesposto principio, la Corte ha confermato l'obbligo per il padre al versamento dell'assegno di mantenimento in favore della figlia maggiorenne nonostante quest'ultima avesse trovato un impiego a tempo indeterminato, che però non rispondeva alle sue aspirazioni e non gli assicurava una indipendenza economica. (si veda Cass. Civ. Sez. I dd. 27/06/2011, n. 14123)

Tuttavia, occorre procedere ad una valutazione più approfondita che distingua caso per caso, perché se da un lato è un bene prevenire una sorta di "parassitismo" dei figli nei confronti dei genitori, stimolandoli alla ricerca ed alla conservazione dell’attività lavorativa, dall'altro questo principio deve essere armonizzato con la criticità che caratterizza l'attuale mercato del lavoro. 
In un mercato del lavoro, dove è la flessibilità a farla da padrone, ci si domanda quando realmente un figlio possa dirsi economicamente autosufficiente e dunque non più avente diritto all'assegno di mantenimento. 

A questo riguardo soccorre un recente orientamento adottato dalle corti territoriali, secondo il quale: l'obbligo dei genitori di provvedere al mantenimento dei figli maggiorenni perdura fino a quando la prole si sia definitivamente inserita nel mondo del lavoro, conseguendo  l'indipendenza economica,  che corrisponde al momento in cui i figli sono avviati ad un'attività lavorativa tale da consentirgli  una  concreta  prospettiva  di autonomia economica. Graverà, dunque, sul genitore che si rivolge all'autorità giudiziaria, perché sia eliminato l'obbligo di mantenimento, l'onere probatorio dell'avverarsi della condizione appena descritta.

(a cura di Avv. Luca Conti del foro di Trento).
  

martedì 31 luglio 2012

LA COSTITUZIONE IN MORA DEL CREDITORE ED IL CONCORSO DI COLPA NELLA CAUSAZIONE DEL DANNO






 
LA BUONA FEDE NELL'ESECUZIONE DEL CONTRATTO - LA COSTITUZIONE IN MORA DEL CREDITORE - IL CONCORSO DI COLPA


Art. 1206 c.c. (la costituzione in mora del creditore)
Il creditore è in mora quando, senza motivo legittimo, non riceve il pagamento offertogli nei modi indicati dagli articoli seguenti o non compie quanto è necessario affinché il debitore possa adempiere l'obbligazione.

Art. 1207 c.c. (gli effetti della mora del creditore)
Quando il creditore è in mora, è a suo carico l'impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa non imputabile al debitore. Non sono più dovuti gli interessi né i frutti della cosa che non siano stati percepiti dal debitore.
Il creditore è pure tenuto a risarcire i danni derivati dalla sua mora e a sostenere le spese per la custodia e la conservazione della cosa dovuta.
Gli effetti della mora si verificano dal giorno dell'offerta, se questa è successivamente dichiarata valida con sentenza passata in giudicato o se è accettata dal creditore.

Art. 1227 c.c. (il concorso del fatto colposo del creditore)
Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate.
Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza (artt. 1175 e 2056 c.c.).

Art. 1175 c.c. (il comportamento secondo correttezza)
Debitore e creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza.

Art. 1176 c.c. (la diligenza nell'adempimento)
Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia.
Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”.

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L'art. 1206 c.c. disciplina la situazione in cui - paradossalmente - può avverarsi la cd. "mora del creditore" anziché - come è di consuetudine - la "mora del debitore" disciplinata dall'art. 1219 c.c. 
Si tratta, infatti, di una situazione inusuale (ma che talvolta può ricorrere), in cui chi è creditore di una certa prestazione, anziché riceverla, la rifiuta ovvero ostacola l'adempimento del debitore senza giustificato motivo.
Questa situazione si verifica quando il creditore, per i motivi più vari, cerca di mantenere una posizione di supremazia nei confronti del debitore.
L'art. 1206 c.c. parla appunto della cd. "mora del creditore" accostandola, almeno dal punto di vista terminologico, alla ben più frequente "mora del debitore". 

La cd. "mora del debitore" consiste nell'inadempimento totale o parziale (in quest’ultimo caso si parla di inesatto adempimento) dell'obbligazione assunta dal debitore. Per la costituzione in mora occorre di regola un atto scritto, che però non è necessario se il debitore ha già dichiarato di non voler adempiere all'obbligazione, ovvero quando questa trae origine dal fatto illecito del debitore stesso.
Per effetto della costituzione in mora del debitore, in caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa anche non imputabile al debitore, questi dovrà comunque risarcire i danni sofferti dal creditore in conseguenza dell'inadempimento, a meno che non provi che l'oggetto della prestazione sarebbe comunque perito presso il creditore; il debitore sarà obbligato a risarcire i danni che il creditore ha subito in seguito al ritardo nell'adempimento.
Dunque, gli effetti della costituzione in mora si sostanziano principalmente nel risarcimento dei danni che il comportamento colposo del debitore ha provocato. 
Ciò detto, occorre comunque tenere ben distinte le due fattispecie di "costituzione in mora", perché afferiscono a situazioni completamente differenti: il creditore infatti non è "obbligato" ma solo "onerato" a ricevere la prestazione, ossia deve collaborare col debitore perché questi adempia alla prestazione dovuta, mentre il debitore è "obbligato" ad adempierla. 
Ciò non di meno, il comportamento doloso / colposo del creditore può causare difficoltà e danni al debitore, che per questo motivo deve avere il modo di liberarsi all'obbligazione anche quando il creditore non lo voglia.
Quando il creditore è "costituito in mora" perché rifiuta di ricevere la prestazione senza giustificato motivo ovvero ostacola il debitore nell'adempimento dell'obbligazione, è posta a suo carico l'impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa non imputabile al debitore, e non sono più dovuti gli interessi né i frutti della cosa che non siano stati percepiti dal debitore.
Il creditore è pure tenuto a risarcire i danni derivati dalla sua mora ed a sostenere le spese per la custodia e la conservazione della cosa dovuta.
Gli effetti della mora si verificano dal giorno in cui viene fatta dal debitore al creditore l’offerta della prestazione che gli deve essere opposta in modo formale: ad esempio, se l'obbligazione ha per oggetto il pagamento di una somma di denaro al creditore, l'offerta deve essere reale ai sensi dell'art. 1209 c.c. (l'offerta reale consiste nella diretta presentazione del denaro che si mette a disposizione del creditore).
L'art. 1206 c.c. va letto e coordinato con l'art. 1227 c.c., che disciplina - invece - il "concorso di colpa del creditore" nella causazione del danno.
L'art. 1227 c.c. incide, infatti, nella liquidazione del risarcimento in punto quantum: se il fatto colposo del creditore ha contribuito a causare l'evento dannoso (si pensi al caso di un passeggero coinvolto in un incidente stradale che non indossava la cintura di sicurezza, ovvero al caso di un paziente che non segue le prescrizioni del medico curante) l'entità del risarcimento che gli sarebbe dovuto è proporzionalmente diminuita in base all'entità ed alla gravità del suo concorso colposo.
Il secondo comma dispone, inoltre, che non è dovuto il risarcimento per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare, usando la normale diligenza.
Quanto sopra disposto costituisce il naturale corollario della cd. "buona fede o correttezza" che si richiede tanto al debitore quanto al creditore nell'esecuzione delle rispettive prestazioni (sinallagma) nascenti da un contratto (art. 1175 c.c.).
In altri termini, anche chi è creditore di una determinata prestazione deve cooperare secondo buona fede col soggetto obbligato ad eseguirla, per evitare la causazione di possibili danni. Questo principio vale anche nel caso di illeciti extracontrattuali, ossia non nascenti dall'esecuzione di un contratto.
Ad esempio, si domanda: il passeggero trasportato a bordo di un autoveicolo, ha diritto al risarcimento del danno biologico subito per effetto di un sinistro stradale, se non indossava le cinture di sicurezza? In questo caso occorrerà avere riguardo del caso specifico e, dunque, verificare se e quali danni si sarebbero potuti evitare, qualora il terzo trasportato e danneggiato avesse indossato correttamente la cintura.
Un lavoratore dipendente subisce un grave infortunio sul lavoro, poiché non indossava il kit precauzionale anti-infortunistico; gli è dovuto il risarcimento del danno sofferto? Anche in questo caso bisogna verificare il caso concreto: se il posto di lavoro (ad esempio, un cantiere) rispettava la vigente normativa in materia anti-infortunistica oppure no, se il responsabile per la sicurezza aveva imposto l’osservanza delle norme anti-infortunistiche, e solo dopo queste verifiche occorrerà accertare quali e quanti danni il lavoratore avrebbe potuto evitare o quanto meno ridurre, indossando il necessario kit.
Con riferimento specifico al caso che precede, occorre segnalare che l'utilizzo del kit anti-infortunistico non comporta a priori l'esclusione del diritto al risarcimento del danno biologico sofferto dal lavoratore, trattandosi di norme a tutela pubblicistica, la cui violazione - di regola - non ricade sul lavoratore, ma sul datore di lavoro; una prassi - quest'ultima - senza dubbio discutibile, se si considera che i soggetti responsabili per la sicurezza nei cantieri non possono seguire e vigilare in ogni singolo istante sull'attività di ogni singolo operaio.
Quindi, se il soggetto danneggiato ha concorso in modo apprezzabile a causare l'evento dannoso, ovvero all’inadempimento del debitore, il diritto al risarcimento sarà proporzionalmente ridotto, nella misura corrispondente al suo concorso di colpa; se, invece, il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, spetterà al Giudicante liquidarlo con una valutazione equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., avuto riguardo del paradigma di cui all’art. 1227 c.c.
Da quanto precede, discende che il creditore è tenuto in ogni caso a comportarsi secondo DILIGENZA e BUONA FEDE (artt.1175-1176 c.c.), utilizzando l’ordinaria diligenza per evitare ulteriori danni oltre a quelli già ascrivibili alla condotta del danneggiante; se il danneggiato omette di mitigare gli ulteriori possibili nuovi danni, non tenendo una condotta conforme alle regole della diligenza del buon padre di famiglia, non avrà diritto al ristoro degli ulteriori danni subiti.
Si pensi al caso di una persona che, per fatto illecito altrui, subisca un danno fisico (ad esempio la frattura di un arto) che lo costringa ad indossare un tutore ed a seguire determinate terapie riabilitative: se il danneggiato non si uniforma alle prescrizioni mediche, non avrà diritto al risarcimento degli ulteriori danni fisici che siano conseguenza indiretta e mediata del fatto illecito subito ab origine.
Questo basilare principio, trova applicazione anche nelle obbligazioni contrattuali ed in particolare nei contratti aventi per oggetto prestazioni corrispettive (o sinallagmatiche): ciascuno dei contraenti deve comportarsi nell'esecuzione del contratto secondo buona fede e con la diligenza richiesta al buon padre di famiglia (art.1176 c.c.). 
Infatti, il debitore di una prestazione ha diritto di esigere la cooperazione del creditore (ossia dell’avente diritto alla prestazione) nell’esecuzione del contratto. Ad esempio, se l’impossibilità di eseguire un contratto dipende dall’esclusivo fatto del creditore, il debitore della prestazione ha diritto di domandare la risoluzione e di domandare il ristoro delle ulteriori spese che sono conseguenza della risoluzione del contratto? La risposta è certamente affermativa.
In ambito processuale, l'eccezione di "concorso di colpa del danneggiato" prevista dall'art. 1227 c.c. deve essere sollevata esclusivamente dalla parte processuale a tutela della quale la norma è posta: infatti, non è un'eccezione rilevabile d’ufficio (ossia dal Giudice), ma solo ad istanza di parte. 
Ne segue che: il debitore di una determinata prestazione contrattuale, che sia convenuto in un giudizio dove si domanda nei suoi confronti il risarcimento dei danni conseguenti al suo inadempimento, dovrà eccepire col primo atto difensivo il concorso di colpa che egli imputa al danneggiato (ossia dell'avente diritto alla prestazione), per ottenere una proporzionale riduzione del risarcimento da pagare; l'onere della prova quanto al concorso di colpa del danneggiato grava ovviamente sul soggetto che invoca l'applicazione dell'art. 1227 c.c., essendo il naturale corollario del più generale principio stante il quale l'onus probandi incumbit ei qui dicit.  


RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI

La previsione di cui all'art. 1227 c.c. presuppone che il fatto colposo del creditore abbia concorso a cagionare il danno dal medesimo subito, cosicché deve essere esclusa in radice la stessa possibilità di ipotizzare un tale concorso laddove il danno di cui si tratta sia stato riportato non da uno dei conducenti dei veicoli coinvolti, ma da un terzo trasportato (che tale rimane, quantunque figlio minore di uno dei conducenti) Cass. civ., sez. III, dd. 09/06/2014, n.12898.

L'esposizione volontaria ad un rischio, o, comunque, la consapevolezza di porsi in una situazione da cui consegua la probabilità che si produca a proprio danno un evento pregiudizievole, è idonea ad integrare una corresponsabilità del danneggiato e a ridurre, proporzionalmente, la responsabilità del danneggiante, in quanto viene a costituire un antecedente causale necessario del verificarsi dell'evento, ai sensi dell'art. 1227, primo comma, cod. civ., e, a livello costituzionale, risponde al principio di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost. avuto riguardo alle esigenze di allocazione dei rischi (riferibili, nella specie, all'ambito della circolazione stradale) secondo una finalità comune di prevenzione, nonché al correlato obbligo di ciascuno di essere responsabile delle conseguenze dei propri atti. (Nella specie, in applicazione dell'anzidetto principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto sussistente il concorso di colpa del danneggiato per aver partecipato come passeggero ad una gara automobilistica clandestina). Cass. civ., sez. III, dd. 26/05/2014, n. 11698.

L'onere di diligenza imposto al creditore dall'art. 1227 comma 2 c.c., non spinge - in tesi generale - fino al punto di obbligare quest'ultimo a compiere una attività gravosa o rischiosa, quale la introduzione di un processo. Cass. civ., sez. I, dd. 29/01/2014, n.1895 .

L'art. 1227, secondo comma, cod. civ., escludendo il risarcimento per il danno che il creditore avrebbe potuto evitare con l'uso della normale diligenza, non si limita ad esigere dal creditore la mera inerzia di fronte all'altrui comportamento dannoso, ma gli impone, secondo i principi di correttezza e buona fede di cui all'art. 1175 cod. civ., una condotta attiva o positiva, diretta a limitare le conseguenze dannose di quel comportamento. Cass. civ., Sez. II, dd. 28/11/2013, n.26639 .

Mentre ogni offerta di adempimento vale ad escludere la mora del debitore, ove quest'ultimo voglia conseguire l'effetto più ampio della liberazione dall'obbligazione - idoneo a porsi quale presupposto costitutivo per l'eventuale configurazione di un concorso del creditore ai sensi dell'art. 1227, secondo comma, cod. civ. - è tenuto a far seguire l'offerta reale di danaro (o, eventualmente, di titoli di credito) dal deposito, secondo la disciplina degli artt. 1208 e seguenti cod. civ., nonché da tutti gli adempimenti conseguenti specificati dall'art. 1212 cod. civ. Cass. civ., sez. II, dd. 15/11/2013, n.25775 .

La colpa dell'inadempiente, quale presupposto per la risoluzione del contratto, è presunta sino a prova contraria e tale presunzione è superabile solo da risultanze positivamente apprezzabili, dedotte e provate dal debitore, le quali dimostrino che, nonostante l'uso della normale diligenza, non è stato in grado di eseguire tempestivamente le prestazioni dovute per cause a lui non imputabili. Ne consegue che non può essere pronunciata la risoluzione del contratto in danno della parte inadempiente, ove questa superi la presunzione di colpevolezza dell'inadempimento, dimostrandone la non imputabilità a causa dell'ingiustificato rifiuto della controparte di ricevere la prestazione. Cass. civ., sez. III, dd. 11/02/2005, n.2853 .

(Avv. Luca Conti del foro di Trento).