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lunedì 12 settembre 2016

LA RESPONSABILITA' PER DANNI A TERZI NELLA RISTRUTTURAZIONE DI BENI IMMOBILI










RISTRUTTURAZIONE DI BENI IMMOBILI E
RESPONSABILITA' DEL COMMITTENTE PER DANNI A TERZI


L'art. 1655 c.c. definisce il contratto d'appalto a tenore del quale l'appalto è il contratto con cui una parte (l'appaltatore n.d.r.) assume con una propria organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro.

Per il fatto che la gestione dell'appalto è assunta a proprio rischio dall'appaltatore questi è di regola il primo responsabile per eventuali danni cagionati a terzi nell'esecuzione dell'opera che gli è stata commissionata.

Tuttavia, l'appaltatore non è necessariamente l'unico soggetto responsabile per danni a terzi ed il terzo danneggiato può esercitare l'azione risarcitoria anche nei confronti del committente sulla base del cosiddetto "rapporto di custodia" che ai sensi dell'art. 2051 c.c. lega il proprietario al bene che ha originato il danno.

Pertanto, nel caso di ristrutturazione di beni immobili si ha un concorso di responsabilità tra l'esecutore delle opere ai sensi dell'art. 2043 c.c. (responsabilità per fatto illecito o responsabilità extracontrattuale) ed il committente dei lavori ai sensi dell'art. 2051 c.c. (responsabilità da cosa in custodia).

Recita l'art. 2051 c.c.: ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.  

Secondo una parte della dottrina si tratta di una fattispecie di responsabilità oggettiva di difficile superamento, che trova il proprio fondamento nel rapporto di disponibilità tra la cosa che ha originato il danno ed il soggetto che l'ha a propria disposizione, e dove il caso foruito è l'elemento idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra la condotta e l'evento dannoso.

Secondo, invece, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti si tratta di una responsabilità fondata su una presunzione relativa di colpa a carico del custode, che può essere superata solo dal ricorrere del caso fortuito. 

Comunque la si voglia interpretare, nel caso specifico di un contratto d'appalto avente ad oggetto la ristrutturazione di un bene immobile l'appaltatore che ha assunto a proprio rischio l'esecuzione dei lavori è il primo responsabile in caso di danni a terzi in applicazione del divieto generale di neminem laedere sancito dall'art. 2043 c.c.

Invece, un esempio tipico di responsabilità per danni da cosa in custodia sanzionata dall'art. 2051 c.c. è quella degli enti proprietari delle strade per i danni provocati agli utenti della strada: se una vettura viene danneggiata a causa della presenza di una buca o di un altro "trabocchetto" presente sulla sede stradale, l'ente che ne è proprietario (pubblico o privato) sarà chiamato a rispondere dei danni conseguenti in applicazione del rapporto di custodia, anche se la manutenzione della strada è stata affidata in appalto ad un'impresa terza. 

Tornando alla fattispecie qui in esame, nella ristrutturazione d'immobili il committente dei lavori non può esserne ritenuto indenne da responsabilità, proprio in applicazione del principio stabilito dall'art. 2051 c.c. 

Secondo la prevalente giurisprudenza dei tribunali territoriali la responsabilità individuata dall'art. 2051 c.c. deve ritenersi configurabile anche in capo al proprietario dell'immobile oggetto di lavori di rifacimento per danni cagionati a terzi e diretta conseguenza di detti lavori. Nè può ritenersi che il proprietario cessi di averne la disponibilità  e dunque la custodia per averne pattuito nel contratto d'appalto la ristrutturazione. Pertanto, salvo che venga fornita la prova positiva di avere affidato totalmente all'appaltatore la custodia del bene oggetto di ristrutturazione, il proprietario deve dirsi responsabile ai sensi dell'art. 2051 c.c. per danni provocati a terzi in quanto custode della cosa, avendo egli l'obbligo di impedire il verificarsi di detti danni, vigilando e controllando la corretta esecuzione dei lavori commissionati (Tribunale di Bari, Sezione III, dd. 15/01/2009 n.71). 

Di pari avviso è il Tribunale di Bologna che in una pronuncia del 2012 ha così deciso: il proprietario di un immobile dato in appalto per la sua ristrutturazione non cessa di averne la materiale disponibilità. Fatta salva l'ipotesi in cui il committente provi il totale affidamento del bene alla custodia dell'appaltatore, il proprietario risponde in solido dei danni derivati ad un terzo ai sensi e per gli effetti dell'art. 2051 c.c. in quanto custode del bene e dunque obbligato a vigilare in ordine all'esecuzione dei relativi lavori, al fine di impedire il verificarsi di qualsivoglia pregiudizio (Tribunale di Bologna, Sezione III, dd. 20/03/2012 n.853).


Ed ancora: il proprietario di un immobile non cessa di averne la materiale disponibilità per averne pattuito, in appalto, la ristrutturazione, e pertanto, salvo che provi il totale affidamento di esso all'appaltatore, è responsabile, ai sensi dell'art. 2051 c.c. in quanto custode del bene, dei danni derivati ad un terzo, avendo l'obbligo, al fine di impedire che essi si verifichino, di controllare e vigilare l'esecuzione dei relativi lavori (Tribunale di Bologna dd. 25/04/2007, n. 2787).

Di particolare interesse è una più risalente pronuncia del Tribunale di Bologna, che individua due specifiche ipotesi di responsabilità in capo al committente dei lavori e proprietario del fabbircato in ristrutturazione: secondo i giudici bolognesi, il committente può essere citato a giudizio da chi pretende il risarcimento dei danni subiti per effetto e conseguenza di lavori di ristrutturazione sia ai sensi dell'art. 2043 c.c. sia ai sensi dell'art. 2051 c.c.
La distintizione, tuttavia, non è di poco conto, dal momento che chi agisce in giudizio per il risarcimento del danno sofferto, nel caso di vocatio in ius ai sensi dell'art. 2043 c.c. dovrà anche provare che l'evento dannoso è conseguenza diretta di un comportamento ascrivibile al committente e non già all'impresa esecutrice, atteso che vige in materia di appalto il principio generale per cui il soggetto giuridicamente responsabile verso il terzo danneggiato  è solo l'appaltatore ai sensi dell'art. 2043 c.c.; in questo caso, l'appaltatore può essere tenuto indenne da ipotesi di responsabilità, se nel corso dell'esecuzione del contratto il committente ha assunto iniziative tali da relegare l'appaltatore a ruolo di nudus minister ossia di mero esecutore delle direttive a lui impartite (Tribunale di Bologna, Sezione II, dd. 26/02/2008 n.445). 

Sempre in tema di concorso di responsabilità suscita interesse il caso deciso in ultima istanza dalla Corte di Cassazione, che aveva per oggetto l'individuazione dei soggetti responsabili in caso di danni ad un immobile limitrofo a quello oggetto di rifacimento concesso a terzi in locazione e pericolante:
qualora il proprietario dell'immobile locato ometta il doveroso e tempestivo intervento per l'accertamento dei pericoli statici del fabbricato è da ritenersi corresponsabile dei danni arrecati ad altro immobile o alle parti comuni del condominio, dai lavori di ristrutturazione dell'immobile concesso in locazione. (Nella specie il conduttore aveva informato il proprietario, a mezzo di missiva e prima dell'avvio dei lavori, della natura di fatto degli interventi in progetto, invitandolo alle verifiche del caso per l'accertamento di eventuali pericoli statici del fabbricato). (Cass. civ. sez. III dd. 18/08/2011, n.17376).

Da segnalare, infine, una più recente pronuncia del Tribunale di Bari, che in un contenzioso di risarcimento danni conseguenti alla completa ristrutturazione di un immobile affidato in appalto e poi ogetto di sub-appalto ha ritenuto l'impresa appaltatrice l'unica responsabile dei danni provocati durante l'esecuzione dei lavori sia ai sensi dell'art. 2043 c.c. sia ai sensi dell'art. 2051 c.c. in quanto il committente aveva affidato in toto la custodia del bene direttamente all'appaltatore: (...) durante tutto il rapporto di esecuzione dell'opera e fino alla consegna del bene al committente il dovere di custodia e di vigilanza sulla cosa passa dal proprietario a chi esegue i lavori, il quale è tenuto non solo ad impedire che la cosa si distrugga o si deteriori, ma anche ad evitare che questa arrechi danni a terzi. Deve dunque escludersi in relazione ai danni arrecati a terzi nel corso di lavori di ristrutturazione una responsabilità del committente, non potendo questi controllare le modalità dell'organizzazione che si è data l'impresa esecutrice. Detto principio trova la propria deroga, allorché il committente abbia impartito all'impresa esecutrice particolari direttive, tali da relegarla a ruolo di nudus minister (Tribunale di Bari, Sezione III, dd. 06/10/2014 n.4440).

In definitiva, alla luce dei precedenti di giurisprudenza appena richiamati si può concludere che: 
1) di regola il primo soggetto responsabile di danni arrecati a terzi durante l'esecuzione dei lavori di ristrutturazione di un immobile (appartamento o fabbricato) è l'appaltatore in quanto esercita l'impresa con gestione a proprio rischio ed in base al principio di neminem laedere sancito dall'art. 2043 c.c.; 
2) alla responsabilità dell'appaltatore si affianca quella in concorso del committente ai sensi dell'art. 2051 c.c., salvo che egli abbia perso la materiale disponbilità del bene e quindi se lo abbia affidato alla completa custodia dell'impresa esecutrice; 
3) il committente dei lavori può essere citato a giudizio quale unico responsabile dei danni subìti da terzi sia ai sensi dell'art. 2051 c.c. sia ai sensi dell'art. 2043 c.c., ove non abbia affidato all'impresa esecutrice la completa custodia dell'immobile ed abbia impartito direttive all'appaltatore relegandolo a ruolo di nudus minister ossia a mero esecutore di dette direttive.

(a cura di Avv. Luca Maria Conti)



 

 

martedì 12 luglio 2016

LA RILEVANZA DEL PATTEGGIAMENTO NEL PROCESSO CIVILE









LA RILEVANZA DELLA SENTENZA DI APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI (PATTEGGIAMENTO) NEL PROCESSO CIVILE PER DANNI




Un problema particolarmente dibattuto negli anni trascorsi ed oggi apparentemente superato (ma non del tutto) è quello della rilevanza del “patteggiamento” nel processo civile: altrimenti detto, quale valore o rilevanza si deve conferire alla “applicazione della pena richiesta dalle parti” nel giudizio civile di danno?
Come noto il combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 185 c.p. stabilisce che qualsiasi fatto illecito costituente reato obbliga al risarcimento del danno chi l’ha cagionato in favore della parte offesa.
Certuni sostengono - erroneamente - che il rimedio premiale del patteggiamento, non essendo equiparabile ad una sentenza penale di condanna resa all’esito di un’istruttoria dibattimentale e non contenendo un’ammissione esplicita di responsabilità dell’imputato in ordine al “fatto-reato” ascrittogli, non avrebbe alcun rilievo sotto il profilo probatorio nel conseguente giudizio civile di danno.
E’ noto, infatti, che ove l’imputato benefici dell’applicazione della pena concordata col P.M. (art.444 c.p.p.), il Giudice (GUP) non può decidere sulla richiesta di danno promossa dalla parte offesa dal reato (la cd. parte civile), che pertanto si vede costretta a rivolgersi al giudice civile per vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale e/o patrimoniale che ha sofferto.
A questo punto, come si deve comportare il giudice civile rispetto alla sentenza di patteggiamento che il danneggiato ed attore nel processo civile chiede di allegare come elemento di prova della responsabilità del convenuto a giudizio?
Chi sostiene che il patteggiamento non abbia alcun rilievo nel giudizio civile di danno sbaglia e l’errore trae spesso origine da un’erronea interpretazione dell’istituto del patteggiamento, basata sul fatto che la sentenza di applicazione della pena su richiesta non fa stato nel processo civile.
Ora, se per un verso è vero che il patteggiamento non fa stato nel giudizio civile di danno, è altrettanto che vero che allo stesso non può affibbiarsi la sola paternità di rimedio giuridico dal carattere premiale (corrispondente alla diminuzione della pena fino ad 1/3) collegato al contenimento delle spese processuali ed all’aggiramento delle lungaggini processuali connesse all’istruttoria dibattimentale. Anche perché chi patteggia, rinuncia al diritto di potersi difendere in giudizio accettando le risultanze probatorie emerse nel corso delle indagni penali.
Per altro verso, secondo un orientamento ormai consolidato della Giurisprudenza di legittimità il patteggiamento implica pur sempre “un riconoscimento da parte dell’imputato del fatto-reato narrato dal denunciante
Qual è dunque l’efficacia che il giudice civile deve conferire alla sentenza di patteggiamento, con cui con cui l’imputato (poi convenuto nel processo civile) ha definito il processo penale?
In vero, il patteggiamento contiene un implicito accertamento del “fatto-reato” contestato all’imputato, una sorta di cristallizzazione dei fatti narrati dalla parte offesa nella denuncia introduttiva, a partire dai quali il giudice civile ha il dovere di esperire le prove richieste dalle parti, da porre successivamente a fondamento della propria decisione.
In proposito, si richiama l’orientamento della Corte di Cassazione di cui alle sentenze n.9546/2013 e 17289/2006 a tenore delle quali: la sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce per il giudice civile un importante elemento di prova (…) pertanto la sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come una sentenza di condanna, presupponendo pur sempre un’ammissione di colpa, esonera la controparte dall’onere della prova (ex multis si vedano anche Corte d’Appello di Milano, II sezione civile, dd. 23/0/2015, n.2665; Corte d’Appello di Milano, II sezione civile, dd. 19/03/2014, n.1121).
D particolare pregio è una recente pronuncia della Corte d'Appello di Milano (sentenza n.1121 del 19/03/2014): con la sentenza n. 336 del 18 dicembre 2009 la Corte Costituzionale ha affermato che la circostanza che l'imputato, nello stipulare l'accordo sul rito e sul merito della regiudicanda penale, accetti una determinata condanna chiedendone o consentendone l'applicazione, sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto a quei fini di non contestare il fatto e la propria responsabilità (…) quanto alla valenza probatoria della sentenza di patteggiamento nel giudizio civile, secondo costante giurisprudenza di legittimità la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce elemento di prova per il Giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato abbia ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato dunque come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile.
In definitiva, si può ragionevolmente concludere che il patteggiamento o sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti costituisce un elemento di prova che va oltre il mero indizio e che il giudice civile ha il dovere di considerare quando è chiamato a decidere sulla richiesta di danno promossa dalla parte offesa dal reato, sia rapportandolo con le prove orali richieste dalle parti sia potendosene al limite anche discostare motivatamente, allorché le prove orali e/o tecniche esperite nel giudizio civile portino ad evidenze differenti rispetto a quanto emerso nel corso delle indagini penali.


(a cura di Avv. Luca Conti del foro di Trento).

 

martedì 22 marzo 2016

LA TUTELA DEL CONSUMATORE NEL CONTRATTO D'INCARICO PROFESSIONALE PREDISPOSTO DALL'AVVOCATO








LA TUTELA DEL CONSUMATORE NEL CONTRATTO D'INCARICO PROFESSIONALE PREDISPOSTO DALL'AVVOCATO
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DETERMINAZIONE DEL COMPENSO E DIVIETO DI RITENZIONE DELL'ACCONTO VERSATO IN CASO DI REVOCA DEL MANDATO

(Tribunale di Milano, V sez., Sent. n.3571/16 del 18/03/2016)


Tra le tante novità apportate dalla riforma forense al rapporto tra parte assistita ed avvocato c'è anche l'obbligatorietà, posta a carico del professionista, di far sottoscrivere al cliente il contratto per il conferimento dell'incarico professionale, che insieme al preventivo (obbligatorio solo se richiesto espressamente dal cliente) è divenuto condicio sine qua non per verdersi riconosciuto il diritto al compenso in relazione all'attività svolta.
Nella redazione del contratto la "parte forte" è senza dubbio il predisponente e dunque l'avvocato, mentre la "parte debole" è rappresentata dalla parte assistita.
Non vi è dubbio che, quando la parte assistita è una persona fisica che agisce per la tutela dei propri diritti al di fuori della propria attività professionale o imprenditoriale, il contratto è assoggettato (anche) al Codice del Consumo, ossia dal Dec. Lgs. 206/2005.
E' noto che, nella determinazione del compenso dovuto all'avvocato, il primo paramentro di riferimento è rappresentato dall'eventuale accordo raggiunto tra professionista e parte assisitta, in difetto del quale il Giudice può fare ricorso al tariffario vigente ed agli usi, avuto riguardo del pregio dell'attività svolta (art. 2233 c.c.).
Alla luce di quanto appena esposto si pone il seguente problema: l'accordo sulla determinazione del compenso raggiunto con la parte assistita in sede di conferimento dell'incarico è sempre valido e vincolante per il Giudice, oppure in certi casi può essere derogato?
A questa domanda ha risposto la V Sezione Civile del Tribunale di Milano con la Sent. n.3571/16 del 18/03/2016 che in una controversia tra avvocato e parte assistita (avente ad oggetto la determinazione del compenso dovuto al professionista e la richiesta di restituzione dell'acconto versato per recesso anticipato da parte del cliente) ha ritenuto applicabile il Codice del Consumo e vessatoria la clausola posta nel contratto, la quale consentiva (illegittimanente) al predisponente (parte forte del contratto) di ritenere per intero il fondo spese messogli a disposizione dal cliente, ove quest'ultimo avesse esercitato il diritto di recesso ad incarico non ancora ultimato o non ancora eseguito.
La vexata quaestio già posta all'attenzione del Giudice di Pace di Milano (Sent. n.1698/14 del 11/02/2014) e decisa in favore del consumatore veniva riproposta in sede d'appello all'attenzione del Tribunale di Milano: l'avvocato (parte appellante) aveva promosso appello avverso la sentenza pronunciata dal Giudice di Pace di Milano, che lo aveva condannato a restituire al cliente parte del fondo spese messogli a disposizione ad inizio mandato, nonostante che nel contratto sottoscritto dalle parti ci fosse una clausola che inibiva alla parte assistita di chiedere la restituzione dell'acconto sulle spese legali, allorché avesse esercitato anticipatamente il diritto di recesso.
L'appellante aveva censurato la sentenza di primo grado per violazione dell'art. 2233 c.c. ritenendo vincolante per il Giudice l'accordo raggiunto dalle parti per la determinazione del compenso.
Tanto nel giudizio di prime cure quanto in grado d'appello il cliente (parte appellata), che in primo grado aveva chiesto ed ottenuto la restituzione dell'acconto versato per effetto del recesso anticipato in forza della revoca dell'incarico professionale, aveva invocato la vessatorietà della clausola apposta nel contratto di mandato professionale sia per difetto di sottoscrizione a margine della stessa, sia per violazione degli artt. 33 e ss. Dec. Lgs. n. 206/2005.
In particolare, nella clausola de qua si stabiliva che il fondo spese richiesto ed eventualmente corrisposto al professionista all'atto del conferimento dell'incarico fosse da intendersi quale compenso minimo anche nel caso in cui fosse cessato l’incarico professionale, con la conseguenza che la parte assistita non avrebbe potutto chiederne la restituzione neanche parziale. Un pari obbligo, tuttavia, non era stato previsto in favore della parte assistita, ove a recedere anticipatamente fosse stato il professionista.
Ma posto che nel caso di specie si verte in un contratto stipulato tra consumatore e professionista e pertanto soggetto anche al Codice del Consumo, la clausola risultava all’evidenza vessatoria ed inopponibile alla parte assistita, perché imponeva a quest'ultima, che contrattualmente risulta anche la più debole, di non poter esercitare liberamente il diritto di revocare l’incarico, posto che in caso contrario non avrebbe potuto chiedere la restituzione di quanto già pagato in acconto all’atto del conferimento dell’incarico sulle competenze professionali ancora da maturare.
Infatti, nel predisporre detta clausola l'avvocato aveva violato gli artt. 33 e ss. del D. Lgs. n.206/2005, in quanto - non prevedendo lo stesso genere di penale a carico del predisponente - aveva determinato un evidente squilibrio dei diritti e degli obblighi nascenti dal contratto a carico ed in danno del solo cliente.
L’art.33 comma I del D. Lgs. 206/2005 dispone che nel contratto concluso tra consumatore e professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Prosegue poi l’art.33 comma II lett. e) che si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno l’effetto di consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere (…), mentre la successiva lett. g) afferma che si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che consentono al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute.
L’art.36 del D. Lgs. n.206/2005 dispone infine che le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto.
Stante quanto sopra, il caso posto all’esame del Tribunale di Milano è perfettamente aderente a quanto vietato dal Codice del Consumo a protezione del consumatore contro le clausole vessatorie.
Altrimenti detto: il contratto tra professionista e parte assistita era perfettamente valido ad eccezione della clausola sulla determinazione del compenso, che risultava inopponibile alla parte assistita e che obbligava il Giudice a determinare il compenso maturato sulla base del tariffario vigente avuto riguardo dell'attività effettivamente svolta e documentata.
Si richiama di seguito l’orientamento fatto proprio dala giurisprudenza di merito e di legittimità a proposito delle clausole vessatorie predisposte dal professionista in danno del consumatore: in tema di clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore, la previsione dell'art. 33 comma II lett. e del Dec. Lgs. 6 settembre 2005 n.206 - diretta a sanzionare la lesione inferta all'equilibrio negoziale che si concretizza nel trattenimento di una somma di denaro ricevuta prima dell'esecuzione delle prestazioni contrattuali, qualora non si ponga a carico dell' "accipiens" un obbligo restitutorio e un ulteriore obbligo sanzionatorio qualora sia egli stesso a non concludere o a recedere - è applicabile in presenza non solo di un contratto già concluso ed impegnativo per entrambi i contraenti, ma anche di un negozio preparatorio vincolante per il consumatore, quale quello discendente da una proposta irrevocabile, tutte le volte che il consumatore stesso - nel versare, contestualmente all'impegno assunto, una somma di denaro destinata ad essere incamerata dal beneficiario in caso di mancata sottoscrizione del successivo preliminare "chiuso" o del definitivo da parte del proponente - abbia aderito ad un testo, contenente la detta clausola vessatoria, predisposto o, comunque, utilizzato dal professionista oblato; inoltre, è abusiva la clausola con la quale il consumatore si assume l'obbligo di corrispondere comunque l'intero importo pattuito, poiché sanzionando indiscriminatamente il recesso indipendentemente da un giustificato motivo riserva al professionista un trattamento differenziato e migliore; ed ancora in tema di contratto del consumatore, il carattere abusivo di clausole predisposte dal professionista deve essere valutato alla luce sia del principio generale in base al quale tali debbono intendersi le clausole che determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto ai sensi dell'art. 1469 bis del codice civile ed ora art. 33 del Decreto Legislativo del 6 settembre 2005 n. 206, sia di talune fattispecie tipizzate come quella afferente la rinuncia alla facoltà di recesso del consumatore assumendo, per contro, l'obbligo di corrispondere comunque l'intero importo pattuito. Ne consegue l'inefficacia di suddette clausole. (ex multis si vedano Cass. Civ., II Sez., dd. 30/04/2012 n.6639; Cass. civ., Sez. III, dd. 17/03/2010, n.6481; si vedano altresì pronunce analoghe della giurisprudenza di merito Trib. di Trento dd. 01/10/2015 n.880; Trib. Arezzo dd. 17/02/2012 n. 125; Trib. Modena dd. 16/01/2012 n. 93).
Alla luce dell'orientamento appena richiamato, la V Sezione civile del Tribunale di Milano ha rigettato l'appello promosso dall'avvocato per supposta violazione dell'art. 2233 c.c. da parte del Giudice di prime cure ed ha confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato il professionista a restituire al cliente l'acconto già versato detratto quanto maturato in relazione all'attività svolta, stante la vessatorietà della clausola sulla determinazione del compenso predisposta dall'avvocato in danno del consumatore per violazione degli artt.33 e ss. D. Lgs. 206/2005.

(a cura di Avv. Luca Conti del Foro di Trento)


venerdì 12 febbraio 2016

REVOCA DEL D.I. DI PAGAMENTO PER INCOMPETENZA DEL GIUDICE EMITTENTE








REVOCA DEL DECRETO INGIUNTIVO DI PAGAMENTO PER EFFETTO DELLA DECLARATORIA D'INCOMPETENZA TERRITORIALE DEL GIUDICE EMITTENTE


L'Art.637 c.p.c. dispone che per l'ingiunzione è competente il giudice di pace o, in composizione monocratica, il tribunale che sarebbe competente per la domanda proposta in via ordinaria (...) gli avvocati o i notai possono altresì proporre la domanda d'ingiunzione contro i propri clienti al giudice competente per valore del luogo ove ha sede il consiglio dell'ordine al cui albo sono iscritti o il consiglio notarile dal quale dipendono.

Questo prevede, in linea di massima, il codice di rito a proposito dell'individuazione del giudice competente ad emettere l'ingiunzione di pagamento; sembrerebbe, ad una prima lettura, che la norma non ammetta eccezioni. Al contrario, però, l'eccezione si trova nel Codice del Consumo a proposito dell'individuazione del giudice competente a conoscere la domanda giudiziale promossa - ad esempio - da un avvocato nei confronti del proprio assistito, allorché quest'ultimo si sia rivolto al professionista come "persona fisica / consumatore".
In questo caso, infatti, prevale la competenza territoriale esclusiva del foro del consumatore a prescindere dal luogo dove si trova l'Ordine cui è iscritto l'avvocato, ovvero dove si è svolta l'attività procuratoria in ragione della quale si pretende il pagamento degli onorari.

Sulla prevalenza del foro del consumatore (foro esclusivo) rispetto a quello alternativo del luogo dove si trova l'albo professionale cui l'avvocato è iscritto ed individuato dal terzo comma dell'art. 637 c.p.c., si è di recente pronunciata la quinta sezione civile del Tribunale di Milano, che con la Sentenza n.1415/2016 dd. 20/01/2016 (pubblicata il 02/02/2016) ha accolto l'eccezione di nullità del decreto ingiuntivo sollevata dagli opponenti, un D.I. emesso dallo stesso Tribunale poi dichiarato territorialmente incompente a conoscere il ricorso introduttivo promosso da un avvocato che lamentava il mancato pagamento dei propri onorari.

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, gli opponenti TIZIO e CAIA avevano lamentato in via preliminare l'incompetenza teritoriale del tribunale milanese adìto dall'avvocato SEMPRONIO, in quanto essi si erano rivolti al professionista come consumatori; ed essendo loro residenti in un'altra regione d'Italia, avevano eccepito che giudice competente a conoscere la domanda sarebbe dovuto essere quello della città dove avevano stabilito la propria residenza. In conseguenza di quest'eccezione, oltre alla declaratoria d'incompetenza chiedevano al giudice dell'opposizione di revocare il decreto ingiuntivo, ovvero in subordine la rimessione degli atti al giudice individuato come competente.

A questo riguardo si segnala che per costante orientamento della Suprmea Corte di Cassazione "(...) nel procedimento d'ingiunzione promosso da un avvocato al fine di ottenere dal proprio cliente  il pagamento di competenze professionali, ove quest'ultimo riveste la qualità di consumatore trova applicazione la regola del foro esclusivo del consumatore che prevale su quello alternativo speciale di cui all'art. 637 comma 3 c.p.c. (...)" (ex multis Cass. civ. Sez. VI dd. 12/01/2015 n.181; Cass. civ. Sez. VI dd. 12/03/2014 n.5703; Cass. civ. Sez. III dd. 09/06/2011, n.12685; Cass. civ. Sez. VI dd. 16/02/2012, n. 2270).

Il giudice dell'opposizione nel caso di specie non si è limitato, però, ad accertare e dichiarare l'incompetenza territoriale del tribunale milanese, ma ha anche provveduto a revocare in quanto nullo il decreto ingiuntivo emesso ab origine: il giudice, infatti, ha rilevato che "(...) la pronuncia d'incompetenza ad emetere il decreto, e la conseguente declaratoria di nullità di esso, costituisce esercizio e non diniego della competenza funzionale ed inderogabile del giudice dell'opposizione. Ancora, come sottolineato dalla Corte di Cassazione, Sez. III, Ord. dd. 17/07/2009 n.16744 si deve ricordare che la predetta dichiarazione d'incompetenza del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo  - configurandosi il requisito della competenza come condizione di ammissibilità del decreto - determaina in ogni caso la sua caducazione, non necessitandosi di alcuna riassunzione dinnanzi al giudice individuato come competente, essendo poi onere delle parti valutare se proseguire o meno dinnanzi al giudice competente la controversia relativa alla sussistenza del creddito azionato in sede monitoria (...)".

Alla declaratoria d'incompetenza territoriale del giudice che aveva originariamente emesso il D.I., seguiva la revoca di quest'ultimo in quanto nullo senza rimessione degli atti al giudice individuato come competente, ed il professionista convenuto / opposto veniva condannato a rifondere le spese di lite sostenute dagli attori / opponenti in applicazione dell'art. 91 c.p.c.

(a cura di Avv. Luca Maria Conti).