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lunedì 12 settembre 2016

LA RESPONSABILITA' PER DANNI A TERZI NELLA RISTRUTTURAZIONE DI BENI IMMOBILI










RISTRUTTURAZIONE DI BENI IMMOBILI E
RESPONSABILITA' DEL COMMITTENTE PER DANNI A TERZI


L'art. 1655 c.c. definisce il contratto d'appalto a tenore del quale l'appalto è il contratto con cui una parte (l'appaltatore n.d.r.) assume con una propria organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro.

Per il fatto che la gestione dell'appalto è assunta a proprio rischio dall'appaltatore questi è di regola il primo responsabile per eventuali danni cagionati a terzi nell'esecuzione dell'opera che gli è stata commissionata.

Tuttavia, l'appaltatore non è necessariamente l'unico soggetto responsabile per danni a terzi ed il terzo danneggiato può esercitare l'azione risarcitoria anche nei confronti del committente sulla base del cosiddetto "rapporto di custodia" che ai sensi dell'art. 2051 c.c. lega il proprietario al bene che ha originato il danno.

Pertanto, nel caso di ristrutturazione di beni immobili si ha un concorso di responsabilità tra l'esecutore delle opere ai sensi dell'art. 2043 c.c. (responsabilità per fatto illecito o responsabilità extracontrattuale) ed il committente dei lavori ai sensi dell'art. 2051 c.c. (responsabilità da cosa in custodia).

Recita l'art. 2051 c.c.: ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito.  

Secondo una parte della dottrina si tratta di una fattispecie di responsabilità oggettiva di difficile superamento, che trova il proprio fondamento nel rapporto di disponibilità tra la cosa che ha originato il danno ed il soggetto che l'ha a propria disposizione, e dove il caso foruito è l'elemento idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra la condotta e l'evento dannoso.

Secondo, invece, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti si tratta di una responsabilità fondata su una presunzione relativa di colpa a carico del custode, che può essere superata solo dal ricorrere del caso fortuito. 

Comunque la si voglia interpretare, nel caso specifico di un contratto d'appalto avente ad oggetto la ristrutturazione di un bene immobile l'appaltatore che ha assunto a proprio rischio l'esecuzione dei lavori è il primo responsabile in caso di danni a terzi in applicazione del divieto generale di neminem laedere sancito dall'art. 2043 c.c.

Invece, un esempio tipico di responsabilità per danni da cosa in custodia sanzionata dall'art. 2051 c.c. è quella degli enti proprietari delle strade per i danni provocati agli utenti della strada: se una vettura viene danneggiata a causa della presenza di una buca o di un altro "trabocchetto" presente sulla sede stradale, l'ente che ne è proprietario (pubblico o privato) sarà chiamato a rispondere dei danni conseguenti in applicazione del rapporto di custodia, anche se la manutenzione della strada è stata affidata in appalto ad un'impresa terza. 

Tornando alla fattispecie qui in esame, nella ristrutturazione d'immobili il committente dei lavori non può esserne ritenuto indenne da responsabilità, proprio in applicazione del principio stabilito dall'art. 2051 c.c. 

Secondo la prevalente giurisprudenza dei tribunali territoriali la responsabilità individuata dall'art. 2051 c.c. deve ritenersi configurabile anche in capo al proprietario dell'immobile oggetto di lavori di rifacimento per danni cagionati a terzi e diretta conseguenza di detti lavori. Nè può ritenersi che il proprietario cessi di averne la disponibilità  e dunque la custodia per averne pattuito nel contratto d'appalto la ristrutturazione. Pertanto, salvo che venga fornita la prova positiva di avere affidato totalmente all'appaltatore la custodia del bene oggetto di ristrutturazione, il proprietario deve dirsi responsabile ai sensi dell'art. 2051 c.c. per danni provocati a terzi in quanto custode della cosa, avendo egli l'obbligo di impedire il verificarsi di detti danni, vigilando e controllando la corretta esecuzione dei lavori commissionati (Tribunale di Bari, Sezione III, dd. 15/01/2009 n.71). 

Di pari avviso è il Tribunale di Bologna che in una pronuncia del 2012 ha così deciso: il proprietario di un immobile dato in appalto per la sua ristrutturazione non cessa di averne la materiale disponibilità. Fatta salva l'ipotesi in cui il committente provi il totale affidamento del bene alla custodia dell'appaltatore, il proprietario risponde in solido dei danni derivati ad un terzo ai sensi e per gli effetti dell'art. 2051 c.c. in quanto custode del bene e dunque obbligato a vigilare in ordine all'esecuzione dei relativi lavori, al fine di impedire il verificarsi di qualsivoglia pregiudizio (Tribunale di Bologna, Sezione III, dd. 20/03/2012 n.853).


Ed ancora: il proprietario di un immobile non cessa di averne la materiale disponibilità per averne pattuito, in appalto, la ristrutturazione, e pertanto, salvo che provi il totale affidamento di esso all'appaltatore, è responsabile, ai sensi dell'art. 2051 c.c. in quanto custode del bene, dei danni derivati ad un terzo, avendo l'obbligo, al fine di impedire che essi si verifichino, di controllare e vigilare l'esecuzione dei relativi lavori (Tribunale di Bologna dd. 25/04/2007, n. 2787).

Di particolare interesse è una più risalente pronuncia del Tribunale di Bologna, che individua due specifiche ipotesi di responsabilità in capo al committente dei lavori e proprietario del fabbircato in ristrutturazione: secondo i giudici bolognesi, il committente può essere citato a giudizio da chi pretende il risarcimento dei danni subiti per effetto e conseguenza di lavori di ristrutturazione sia ai sensi dell'art. 2043 c.c. sia ai sensi dell'art. 2051 c.c.
La distintizione, tuttavia, non è di poco conto, dal momento che chi agisce in giudizio per il risarcimento del danno sofferto, nel caso di vocatio in ius ai sensi dell'art. 2043 c.c. dovrà anche provare che l'evento dannoso è conseguenza diretta di un comportamento ascrivibile al committente e non già all'impresa esecutrice, atteso che vige in materia di appalto il principio generale per cui il soggetto giuridicamente responsabile verso il terzo danneggiato  è solo l'appaltatore ai sensi dell'art. 2043 c.c.; in questo caso, l'appaltatore può essere tenuto indenne da ipotesi di responsabilità, se nel corso dell'esecuzione del contratto il committente ha assunto iniziative tali da relegare l'appaltatore a ruolo di nudus minister ossia di mero esecutore delle direttive a lui impartite (Tribunale di Bologna, Sezione II, dd. 26/02/2008 n.445). 

Sempre in tema di concorso di responsabilità suscita interesse il caso deciso in ultima istanza dalla Corte di Cassazione, che aveva per oggetto l'individuazione dei soggetti responsabili in caso di danni ad un immobile limitrofo a quello oggetto di rifacimento concesso a terzi in locazione e pericolante:
qualora il proprietario dell'immobile locato ometta il doveroso e tempestivo intervento per l'accertamento dei pericoli statici del fabbricato è da ritenersi corresponsabile dei danni arrecati ad altro immobile o alle parti comuni del condominio, dai lavori di ristrutturazione dell'immobile concesso in locazione. (Nella specie il conduttore aveva informato il proprietario, a mezzo di missiva e prima dell'avvio dei lavori, della natura di fatto degli interventi in progetto, invitandolo alle verifiche del caso per l'accertamento di eventuali pericoli statici del fabbricato). (Cass. civ. sez. III dd. 18/08/2011, n.17376).

Da segnalare, infine, una più recente pronuncia del Tribunale di Bari, che in un contenzioso di risarcimento danni conseguenti alla completa ristrutturazione di un immobile affidato in appalto e poi ogetto di sub-appalto ha ritenuto l'impresa appaltatrice l'unica responsabile dei danni provocati durante l'esecuzione dei lavori sia ai sensi dell'art. 2043 c.c. sia ai sensi dell'art. 2051 c.c. in quanto il committente aveva affidato in toto la custodia del bene direttamente all'appaltatore: (...) durante tutto il rapporto di esecuzione dell'opera e fino alla consegna del bene al committente il dovere di custodia e di vigilanza sulla cosa passa dal proprietario a chi esegue i lavori, il quale è tenuto non solo ad impedire che la cosa si distrugga o si deteriori, ma anche ad evitare che questa arrechi danni a terzi. Deve dunque escludersi in relazione ai danni arrecati a terzi nel corso di lavori di ristrutturazione una responsabilità del committente, non potendo questi controllare le modalità dell'organizzazione che si è data l'impresa esecutrice. Detto principio trova la propria deroga, allorché il committente abbia impartito all'impresa esecutrice particolari direttive, tali da relegarla a ruolo di nudus minister (Tribunale di Bari, Sezione III, dd. 06/10/2014 n.4440).

In definitiva, alla luce dei precedenti di giurisprudenza appena richiamati si può concludere che: 
1) di regola il primo soggetto responsabile di danni arrecati a terzi durante l'esecuzione dei lavori di ristrutturazione di un immobile (appartamento o fabbricato) è l'appaltatore in quanto esercita l'impresa con gestione a proprio rischio ed in base al principio di neminem laedere sancito dall'art. 2043 c.c.; 
2) alla responsabilità dell'appaltatore si affianca quella in concorso del committente ai sensi dell'art. 2051 c.c., salvo che egli abbia perso la materiale disponbilità del bene e quindi se lo abbia affidato alla completa custodia dell'impresa esecutrice; 
3) il committente dei lavori può essere citato a giudizio quale unico responsabile dei danni subìti da terzi sia ai sensi dell'art. 2051 c.c. sia ai sensi dell'art. 2043 c.c., ove non abbia affidato all'impresa esecutrice la completa custodia dell'immobile ed abbia impartito direttive all'appaltatore relegandolo a ruolo di nudus minister ossia a mero esecutore di dette direttive.

(a cura di Avv. Luca Maria Conti)



 

 

martedì 12 luglio 2016

LA RILEVANZA DEL PATTEGGIAMENTO NEL PROCESSO CIVILE









LA RILEVANZA DELLA SENTENZA DI APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI (PATTEGGIAMENTO) NEL PROCESSO CIVILE PER DANNI




Un problema particolarmente dibattuto negli anni trascorsi ed oggi apparentemente superato (ma non del tutto) è quello della rilevanza del “patteggiamento” nel processo civile: altrimenti detto, quale valore o rilevanza si deve conferire alla “applicazione della pena richiesta dalle parti” nel giudizio civile di danno?
Come noto il combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 185 c.p. stabilisce che qualsiasi fatto illecito costituente reato obbliga al risarcimento del danno chi l’ha cagionato in favore della parte offesa.
Certuni sostengono - erroneamente - che il rimedio premiale del patteggiamento, non essendo equiparabile ad una sentenza penale di condanna resa all’esito di un’istruttoria dibattimentale e non contenendo un’ammissione esplicita di responsabilità dell’imputato in ordine al “fatto-reato” ascrittogli, non avrebbe alcun rilievo sotto il profilo probatorio nel conseguente giudizio civile di danno.
E’ noto, infatti, che ove l’imputato benefici dell’applicazione della pena concordata col P.M. (art.444 c.p.p.), il Giudice (GUP) non può decidere sulla richiesta di danno promossa dalla parte offesa dal reato (la cd. parte civile), che pertanto si vede costretta a rivolgersi al giudice civile per vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale e/o patrimoniale che ha sofferto.
A questo punto, come si deve comportare il giudice civile rispetto alla sentenza di patteggiamento che il danneggiato ed attore nel processo civile chiede di allegare come elemento di prova della responsabilità del convenuto a giudizio?
Chi sostiene che il patteggiamento non abbia alcun rilievo nel giudizio civile di danno sbaglia e l’errore trae spesso origine da un’erronea interpretazione dell’istituto del patteggiamento, basata sul fatto che la sentenza di applicazione della pena su richiesta non fa stato nel processo civile.
Ora, se per un verso è vero che il patteggiamento non fa stato nel giudizio civile di danno, è altrettanto che vero che allo stesso non può affibbiarsi la sola paternità di rimedio giuridico dal carattere premiale (corrispondente alla diminuzione della pena fino ad 1/3) collegato al contenimento delle spese processuali ed all’aggiramento delle lungaggini processuali connesse all’istruttoria dibattimentale. Anche perché chi patteggia, rinuncia al diritto di potersi difendere in giudizio accettando le risultanze probatorie emerse nel corso delle indagni penali.
Per altro verso, secondo un orientamento ormai consolidato della Giurisprudenza di legittimità il patteggiamento implica pur sempre “un riconoscimento da parte dell’imputato del fatto-reato narrato dal denunciante
Qual è dunque l’efficacia che il giudice civile deve conferire alla sentenza di patteggiamento, con cui con cui l’imputato (poi convenuto nel processo civile) ha definito il processo penale?
In vero, il patteggiamento contiene un implicito accertamento del “fatto-reato” contestato all’imputato, una sorta di cristallizzazione dei fatti narrati dalla parte offesa nella denuncia introduttiva, a partire dai quali il giudice civile ha il dovere di esperire le prove richieste dalle parti, da porre successivamente a fondamento della propria decisione.
In proposito, si richiama l’orientamento della Corte di Cassazione di cui alle sentenze n.9546/2013 e 17289/2006 a tenore delle quali: la sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce per il giudice civile un importante elemento di prova (…) pertanto la sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come una sentenza di condanna, presupponendo pur sempre un’ammissione di colpa, esonera la controparte dall’onere della prova (ex multis si vedano anche Corte d’Appello di Milano, II sezione civile, dd. 23/0/2015, n.2665; Corte d’Appello di Milano, II sezione civile, dd. 19/03/2014, n.1121).
D particolare pregio è una recente pronuncia della Corte d'Appello di Milano (sentenza n.1121 del 19/03/2014): con la sentenza n. 336 del 18 dicembre 2009 la Corte Costituzionale ha affermato che la circostanza che l'imputato, nello stipulare l'accordo sul rito e sul merito della regiudicanda penale, accetti una determinata condanna chiedendone o consentendone l'applicazione, sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto a quei fini di non contestare il fatto e la propria responsabilità (…) quanto alla valenza probatoria della sentenza di patteggiamento nel giudizio civile, secondo costante giurisprudenza di legittimità la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce elemento di prova per il Giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato abbia ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato dunque come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile.
In definitiva, si può ragionevolmente concludere che il patteggiamento o sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti costituisce un elemento di prova che va oltre il mero indizio e che il giudice civile ha il dovere di considerare quando è chiamato a decidere sulla richiesta di danno promossa dalla parte offesa dal reato, sia rapportandolo con le prove orali richieste dalle parti sia potendosene al limite anche discostare motivatamente, allorché le prove orali e/o tecniche esperite nel giudizio civile portino ad evidenze differenti rispetto a quanto emerso nel corso delle indagini penali.


(a cura di Avv. Luca Conti del foro di Trento).