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lunedì 15 luglio 2019

RIDUZIONE DELL'ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER SOPRAVVENIENZA DI UN NUOVO FIGLIO






RIDUZIONE DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO PER LA SOPRAVVENIENZA DI UN FIGLIO AVUTO DA UNA NUOVA RELAZIONE


Come noto, le disposizioni dell’Autorità Giudiziaria in materia di affidamento e di mantenimento dei figli non sono mai definitive, ossia non sono idonee a passare in giudicato, ma sono sempre adottate rebus sic stantibus, ossia allo stato attuale delle cose.

L’intervenuta modificazione delle condizioni economiche (evidentemente in senso peggiorativo) del soggetto obbligato a corrispondere l’assegno di mantenimento è senza dubbio un elemento idoneo per chiedere al Tribunale la riduzione o anche la revoca dell’assegno di mantenimento. 

Infatti, per costante orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità “(…) è possibile ottenere la riduzione dell'assegno di mantenimento, quando il coniuge obbligato a versarlo subisca un peggioramento della propria capacità economica (ad esempio, per la perdita incolpevole del posto di lavoro) o versi in condizioni di salute tali da comportare crescenti spese a suo carico per le cure destinate a contrastare l'avanzare delle patologie (…)(si veda Cass. civ., Sez. III, dd. 21/01/2004, n.927).

Ed ancora, “(…) in difetto della prova del dichiarato decremento reddituale rispetto allo stipendio percepito alla data della proposizione del ricorso per separazione consensuale (e dell’omologa) non sussistono i presupposti per ritenere “peggiorata” la posizione economica del ricorrente e, di riflesso, per “riconsiderare” la misura dell’assegno suddetto (…)”, (si veda Ord. Tribunale di Bari, Sez. I, dd. 13/01/2009).

In ipotesi di istanza di riduzione dell'assegno destinato alla prole, ai sensi dell'art. 9 l. n. 898 del 1970, “(…) la modifica delle condizioni resta ammissibile solo qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, per tali dovendo intendersi fatti nuovi e non dedotti o deducibili in precedenza, idonei ad incidere sulla condizioni economiche degli obbligati o dei beneficiari rispetto alla situazione presa in considerazione al momento della pronuncia divorzio (…)” (si veda Tribunale di Salerno, Sez. I, dd, 23/03/2013).

Tutto ciò premesso, la domanda che si pone è la seguente: la sopravvenienza di un figlio frutto di una nuova relazione successiva alla separazione o al divorzio, è un elemento idoneo per ottenere la riduzione dell’assegno di mantenimento già disposto in favore dei figli avuti dalla precedente relazione?

In linea di principio la risposta dovrebbe essere negativa, nel senso che non vi è alcun automatismo tra la nascita di un nuovo figlio e la riduzione dell’assegno di mantenimento che il genitore è tenuto a versare nell’interesse dei figli avuti dalla precedente relazione: in altri termini, la formazione di un nuovo nucleo famigliare, anche di fatto, e la nascita di un nuovo figlio sono atti coscienti e volontari, che devono essere ponderati, e pertanto non possono andare a detrimento dei diritti acquisiti dai figli nati in precedenza.
Pur tuttavia, se da un lato non c’è alcun automatismo, dall’altro trattasi pur sempre di un fatto nuovo e, pertanto, idoneo ad essere sottoposto alla valutazione del giudice chiamato a decidere sulla domanda di riduzione dell’assegno di mantenimento.
Ad esempio, quando dalla nuova relazione derivi un concreto peggioramento delle condizioni economiche del soggetto obbligato a pagare l’assegno di mantenimento, la nascita di un nuovo figlio può determinare una revisione, in riduzione, dell'importo dell'assegno di mantenimento. 

Su questo aspetto si è pronunciata la giurisprudenza sia di merito sia di legittimità, secondo la quale “(…) qualora siano allegati sopravvenuti oneri familiari in capo all'obbligato derivanti dalla nascita di un nuovo figlio generato dalla successiva unione, il giudice deve verificare se detta sopravvenienza determini un effettivo depauperamento delle sue sostanze, facendo carico all'istante di offrire un esauriente quadro in ordine alle proprie condizioni economico - patrimoniali (…)" (si veda Cass. civ., Sez. I, dd. 23/08/2006 n.18367)

Identico principio, in termini di onere probatorio posto a carico del soggetto che chiede la riduzione, è stato affermato con riguardo alla sopravvenienza di figli, considerato che i nuovi oneri famigliari potrebbero incidere sulla disponibilità mensile di denaro dell’obbligato: pertanto, per ottenere una pronuncia di revisione dell’assegno di mantenimento, il richiedente dovrà  comunque allegare fatti idonei a dimostrare una deminutio patrimoniii, fermo però restando il principio per cui il nuovo onere familiare non potrà comunque determinare una riduzione del mantenimento dovuto ai figli generati precedentemente, qualora il contributo al loro mantenimento corrisponda ad un importo adeguato alle necessità degli stessi.

Pertanto, affinché la nascita di un nuovo figlio possa portare ad una revoca ovvero alla riduzione dell’assegno di mantenimento, occorre dimostrare (con onere probatorio gravante su chi chiede la modifica) che tale evento abbia determinato un concreto ed effettivo peggioramento delle capacità economiche e contributive del genitore, di modo che qualora l’istante nulla abbia dedotto né provato in merito, deve essere esclusa la fondatezza della domanda di revoca o riduzione dell’assegno di mantenimento per il coniuge, di cui peraltro non è stato dimostrato il miglioramento delle condizioni economiche (si veda Ord. Tribunale Velletri, Sez. I, dd. 17/05/2018).

In conclusione, pertanto, si può affermare che se è pur vero che la giurisprudenza non riconduce automaticamente alla formazione di un nuovo nucleo familiare l'effetto di determinare una riduzione degli oneri di mantenimento dei figli nati da un precedente matrimonio, è altresì vero che la formazione di una nuova famiglia e la nascita di figli dal nuovo partner, determinando la nascita di nuovi obblighi di carattere economico, deve essere valutata come circostanza sopravvenuta che può portare alla modifica delle condizioni stabilite nella separazione o nel divorzio, ovvero del provvedimento del giudice in merito al mantenimento dei figli (si veda Cass. civ., Sez. VI, dd. 12/07/2016, n.14175).

(a cura di Avv. Luca Conti)

IL DIRITTO ALLA PROVVIGIONE DELL'AGENTE IMMOBILIARE







 L'AGENTE IMMOBILIARE HA DIRITTO ALLA PROVVIGIONE IN RELAZIONE ALL'AFFARE CONCLUSO PER EFFETTO DELLA SUA MEDIAZIONE

Il mediatore professionale è colui che mette in relazione due o più parti per la conclusionale di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da un rapporto di collaborazione, di dipendenza e/o di rappresentanza (art.1754 c.c.).

Per l’attività di mediazione in relazione all’affare concluso (art. 1351 c.c.), il mediatore ha diritto ad un compenso detto “provvigione”, che è posto equamente a carico di tutte le parti contraenti; la misura della provvigione è determinata secondo gli accordi stipulati tra mediatore, promissario acquirente e promittente venditore, oppure in mancanza di tale accordo la misura del compenso è stabilita dalle tariffe professionali, dagli usi oppure - in ultima soluzione - da un giudice secondo equità (art. 1755 c.c.).
La provvigione è, dunque, la retribuzione spettante al mediatore consistente nella percentuale sull’importo lordo dell’affare che si è concluso per effetto e conseguenza della sua attività: altrimenti detto, per la maturazione del diritto alla provvigione è sufficiente che il mediatore abbia messo in contatto le parti e che queste abbiano concluso l’affare.
Ai sensi dell’art. 2950 c.c. il diritto alla provvigione si prescrive in un anno dalla conclusione dell’affare: ossia il mediatore deve agire nei confronti delle parti contraenti per la riscossione del proprio compenso entro un anno dalla conclusione dell’affare (art. 1351 c.c.), decorso il quale la provvigione non sarà più esigibile.
Tanto premesso, un problema che spesso si pone ai mediatori è quello legato alla riscossione della provvigione, quando le parti contraenti - dopo essere state messe in contatto dal mediatore - vanno a rogito autonomamente, ossia si accordano in proprio scavalcando la figura del mediatore.
In questi casi il diritto al compenso è ugualmente dovuto da entrambe le parti in egual misura, se la conclusione dell’affare è riconducibile - ossia in rapporto di causalità - all’attività di intermediazione.
Il Tribunale Roma, Sezione X, con la Sentenza del 9 ottobre 2017 n. 18972 ha stabilito che: “(…) il diritto del mediatore alla corresponsione della provvigione sorge tutte le volte in cui la conclusione dell'affare sia in rapporto causale con l'attività intermediatrice, senza che sia richiesto un nesso eziologico diretto ed esclusivo tra l'attività del mediatore e la conclusione dell'affare, essendo sufficiente, che il mediatore, pur in assenza di un suo intervento in tutte le fasi della trattativa ed anche in presenza di un processo di formazione della volontà delle parti complesso ed articolato nel tempo, abbia messo in relazione le stesse, sì da realizzare l'antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto, secondo i principi della causalità adeguata. Dunque, al fine dell'effettiva maturazione, in capo al mediatore, del diritto al compenso provvigionale, è necessario verificare se il medesimo, con la sua opera, abbia realizzato l'antecedente indispensabile per pervenire, attraverso fasi e vicende successive, alla conclusione del contratto. Grava sul mediatore l'onere di provare l'esistenza dell'incarico di mediazione oltre che dell'utile e valido contributo causale tra la propria attività e la conclusione dell'affare (…)”.
Sulla stessa linea si è pronunciato il Tribunale Bari, Sezione II civile, che con la Sentenza del 17 luglio 2015 n. 3307 ha ritenuto che: “(…) in tema di contratto di mediazione e diritto alla provvigione, è sufficiente perché il mediatore ed il procacciatore abbiano diritto al compenso che i medesimi abbiano posto in contatto i soggetti interessati e che l'affare, per effetto del loro intervento, si sia concluso. Ciò in quanto detto contratto si caratterizza per la prestazione di una attività di intermediazione finalizzata a favorire fra terzi la conclusione degli affari (…)”.
Particolarmente interessante è anche una sentenza della Corte di Cassazione, Sezione III, che con la sentenza del 07.04.2005 n. 7251 ha stabilito che: “(…) l'attività di mediazione e la maturazione del diritto alla provvigione sono frutto e conseguenza dell'incontro delle volontà dei soggetti interessati e dell'utile messa in contatto delle parti. Pertanto il mediatore, interponendosi in maniera neutra ed imparziale fra le parti, ha solo l'onere di metterli in contatto fra loro, appianarne eventuali divergenze e farli pervenire alla conclusione dell'affare concordato ed il suo diritto alla provvigione nasce dall'adempimento di questi oneri, a prescindere dalla identità dei soggetti coinvolti nella trattativa (…)”.
Si può - pertanto - concludere che con la stipula del contratto di mediazione le parti interessate ad un certo affare non necessariamente s’impegnano a portarlo a termine, ma certamente s’impegnano a pagare il compenso al mediatore qualora l'affare stesso venga concluso.
Ne deriva che, in tema di mediazione immobiliare, la mancata conclusione del contratto di vendita integra una mancata realizzazione di una condizione essenziale (condicio sine qua non) per la validità del contratto e pertanto fa venire meno il diritto del mediatore al compenso, anche quando tale evento si sia verificato per cause non direttamente riconducibili alla sua attività.  Il compenso non è dovuto solo nel in caso di mancata conclusione dell'affare, mentre è dovuto tutte le volte che la conclusione dell’affare si ponga in rapporto di causalità con l’attività del mediatore, salvo che la conclusione dello stesso sia frutto di iniziative del tutto nuove ed autonome delle parti, non riconducibili in alcun modo all'attività del mediatore.

(a cura di Avv. Luca Maria Conti)