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martedì 24 maggio 2011

DECADENZA DALL'AZIONE DI DISCONOSCIMENTO DI PATERNITA'








DECADENZA DALL'AZIONE DI DISCONOSCIMENTO DI PATERNITA'




L'art. 243 bis c.c. prescrive che l'azione di disconoscimento di paternità (disciplinata dal successivo art. 244 c.c.) del figlio nato nel matrimonio può essere esercitata dal marito, dalla madre ed anche dal figlio. Chi intende disconoscere la paternità rispetto al figlio nato nel matrimonio (sia esso stato concepito durante il matrimonio o prima della sua celebrazione) è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione. La sola dichiarazione della madre non vale ad escludere la paternità.

Scopo della norma è quello di far cadere la presunzione di paternità in capo al padre; la domanda può essere proposta dai soli componenti del nucleo famigliare con esclusione di terzi; l'accoglimento della domanda, fa cessare il rapporto di parentela padre / figlio che a questo punto risulta riconosciuto solo dalla madre.

Il successivo art. 244 c.c. detta i termini entro i quali l'azione può essere promossa: 
1) sei mesi per la madre che decorrono dal giorno della nascita del figlio o dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell'impossibilità a procreare del marito;
2) un anno per il padre che decorre dalla nascita del figlio, ovvero dal giorno in cui egli ha appreso della propria incapacità a procreare, ovvero ancora dal giorno in cui ha appreso dell'adulterio della madre;
3) l'azione è invece imprescrittibile per il figlio che ha raggiunto la maggiore età.

Tanto premsso, al fine di salvaguardare i rapporti parentali e conservare lo status quo acquisito col trascorrere del tempo, l'art. 244 c.c. precisa pure che nei casi previsti dal primo e dal secondo comma l'azione non può più essere proposta trascorsi cinque anni dalla nascita del figlio.

I termini di cui sopra sono posti a pena di decadenza.   

Con specifico riguardo all'azione di disconoscimento promossa dal padre in caso di adulterio della madre (che è anche il caso più frequente), la Suprema Corte di Cassazione con la Sentenza n.7581/2013 ha fatto proprio un orientamento consolidatosi nel tempo, ribadendo che il cd. "dies a quo" a partire dal quale computare l'anno per attivare la procedura coincide col momento in cui il padre ha scoperto l'adulterio della coniuge. 

La scoperta deve essere intesa come conoscenza reale ed effettiva della relazione extraconiugale ovvero dell'incontro sessuale della moglie con altro uomo idoneo a determinare il concepimento del figlio, che il padre intende disconoscere. 
Trascorso un anno dalla scoperta dell'adulterio, l'azione di disconoscimento non è più esperibile. per altro verso, come si è visto sopra, l'azione non sarebbe comunque espribile se il figlio avesse già compiuto il quinto anno d'età.
L'onere probatorio circa l'esatto momento in cui il padre è venuto a conoscenza dell'adulterio incombe sul padre attore in giudizio.

L’azione di disconoscimento di paternità, ossia l’azione mediante la quale il padre può disconoscere il figlio (che si assume) legittimo e per l'effetto ottenere dal Tribunale una pronuncia tesa a negare il rapporto di parentela col figlio, è oggi disciplinata dagli artt. 235 bis e ss. del Codice Civile.
L'azione - come già osservato - è esperibile anche dalla madre entro sei mesi dalla nascita  e dal figlio divenuto maggiorenne, sebbene nella prassi siano soprattutto i padri ad esperirla.
Dunque, l’azione di disconoscimento è esperibile dal padre contro il figlio che si assume legittimo perché venuto alla luce in costanza di vincolo coniugale, ma anche contro il figlio naturale (ossia nato al di fuori del vincolo coniugale), il quale sia stato successivamente legittimato dal matrimonio contratto tra il padre e la madre.

Contraddittori o litisconsorti necessari ( art. 102 c.p.c.) nel procedimento per disconoscimento sono il padre, la madre ed il figlio, il quale se minorenne dovrà essere rappresentato in giudizio da un curatore speciale nominato ad hoc dal Tribunale ai sensi dell'art.247 c.c.

L’azione di disconoscimento, benché possa avere conseguenze negative in termini di tutela psicofisica del minore, è stata legiferata per garantire la veridicità dei rapporti di parentela all’interno del nucleo familiare.

Tuttavia, l’azione di disconoscimento non è esperibile in qualsiasi tempo, ma è soggetta a termini di decadenza per garantire nel contempo un certo grado di stabilità proprio nei rapporti di parentela. 
 
In altre parole, trascorsi cinque anni dalla nascita del figlio ovvero trascorsi dodici mesi dall'aver preso contezza dell'adulterio della coniuge, l’azione non è più esperibile dal padre.

L'art. 244 c.c. così dispone: 
[I]. L'azione di disconoscimento della paternità da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio, ovvero dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell'incapacità a procreare del marito al tempo del concepimento.
[II]. Il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; dal giorno del suo ritorno nel luogo in cui è nato il figlio o in cui è la residenza familiare se egli ne era lontano; se prova di avere ignorato la propria impotenza di generare ovvero l'adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza (...) Nei casi previsti dal primo e dal secondo comma, l'azione non può essere proposta oltre i cinque anni dal giorno della nascita.
[III]. L'azione di disconoscimento della paternità può essere proposta dal figlioche ha raggiunto la maggiore età. L'azione è imprescrittibile riguardo al figlio.
[IV]. L'azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i sedici anni, o del pubblico ministero quando si tratta di minore di età inferiore.

Come è agevole ricavare dalla norma in commento, l’art. 244 c.c. oggi prevede un  espresso termine di decadenza per il padre in caso di adulterio della madre, termine che è stato introdotto dal decreto legislativo n.154/2013 che ha dato attuazione all'intero rapporto di filiazione.
Prima della riforma entrata in vigore nel 2013, l'art. 244 c.c. nulla prevedeva nella sua formulazione originaria a proposito del termine di decadenza dall’azione nel caso di adulterio della coniuge.

A colmare questo vuoto era già intervenuta la Corte Costituzionale con la Sentenza n.134/1985 del 06/05/1985 che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma in commento, nella parte in cui non disponeva - per il caso di adulterio della moglie - che il termine di decadenza decorresse dal giorno dell’avvenuta scoperta dell’adulterio da parte del marito, allorché esso non gli fosse noto nei giorni in cui era nato il figlio. Come si è appena visto, il legislatore mettendo mano al Titolo VII Capo III Libro I c.c. ha posto rimedio alla censura della Consulta.

Restando al caso psecifico dell'adulterio della coniuge, la Suprema Corte di Cassazione ha precisato che per vincere la barriera prescrittiva occorre non già il mero stato di dubbio circa l’adulterio della moglie, bensì la prova certa della conoscenza del fatto e del momento in cui se ne è venuti a conoscenza (cfr. Cassazione civile, Sez. I, dd. 23/04/2003, n.6477).
In altre parole, il marito che a distanza di anni dalla nascita del figlio sia venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie nel periodo del concepimento, per vedere accolta la propria domanda di disconoscimento ed accedere all’escussione delle prove ematiche dovrà fornire prova certa [evidentemente di carattere testimoniale] dell’avvenuto adulterio e per non incorrere nella decadenza dall’azione dovrà dimostrare ex ante di esserne venuto a conoscenza da non oltre un anno rispetto alla data in cui ha proposto l’azione di disconoscimento.

In mancanza di tali requisiti, l’azione di disconoscimento sarebbe manifestamente improcedibile ai sensi dell'art. 244 c.c. stante l’interpretazione della citata sentenza, ove il padre non fornisca alcuna prova certa quanto alla conoscenza del preteso adulterio della coniuge, né quanto al dies a quo in cui ne sarebbe venuto a conoscenza.

Inoltre, per accedere all’azione di disconoscimento di adulterio vero e proprio deve trattarsi e non di una mera relazione sentimentale, evidentemente non idonea al concepimento di un figlio.
Come detto, la prova certa della conoscenza dell’adulterio riveste carattere preliminare rispetto alle prove ematiche [test del DNA] cui è demandato il raggiungimento della conoscenza sulla negatività della paternità biologica (si veda Cass. civ. Sez. I dd. 25/02/2005, n.4090) e pertanto nell’ipotesi di adulterio della moglie scoperto dopo la nascita del figlio il termine di decadenza di un anno per l’esercizio dell’azione decorre dalla data di avvenuta conoscenza dell’adulterio e non già dalla conoscenza della incompatibilità genetica raggiunta attraverso prove ematiche (si veda Cassazione civile, Sez. I, dd. 23/10/2008, n.25263).

Appare, dunque, di meridiana evidenza che per superare la barriera preclusiva prevista dall’art.244 c.c. non basta assumere genericamente di avere appreso da chicchessia che la coniuge avrebbe intrattenuto una mera relazione sentimentale con un altro uomo non meglio identificato al momento del concepimento del figlio, bensì occorre fornire prova certa del momento in cui l’attore ha raggiunto la piena ed univoca contezza dell’incontro o degli incontri sessuali che la donna intratteneva con altro uomo determinato.

Infatti, generiche allusioni a pretesi e non meglio precisati rapporti sentimentali e/o sessuali con soggetti indeterminati, rivestirebbero un carattere meramente esplorativo, non idonee ad assurgere al rango di “prova certa”.
Noto è l’orientamento della giurisprudenza - sia di merito sia di legittimità  - attorno alla disciplina dell’azione di disconoscimento proposta dal padre: in tema di azione di disconoscimento il termine annuale di decadenza entro il quale va introdotto da parte del padre il giudizio decorre dalla data di acquisizione certa della conoscenza e non di un mero sospetto dell’adulterio, cioè di una vera e propria relazione o incontro sessuale idoneo a determinare il concepimento del bambino, non riconducibile ad una mera relazione sentimentale o frequentazione con altro uomo. Pertanto, incombe sul padre l’onere di provare di avere proposto la domanda tempestivamente entro il termine decadenziale, il controllo della cui osservanza spetta al Giudice d’ufficio rivestendo carattere preliminare (ex multis Cass. civ. Sez. I dd. 23/10/2008, n.25623; Cass. civ. Sez. I dd. 23/04/2003, n.6477; Cass. civ. Sez. I dd. 22/10/2002, n.14887; Trib. Genova Sez. IV dd. 07/04/2008; Trib. Monza Sez. IV dd. 04/01/2008).

(a cura di Avv. Luca Conti del foro di Trento).




lunedì 23 maggio 2011

OBBLIGO DI ACQUISIZIONE DELLA PATENTE DI GUIDA ITALIANA PER I CITTADINI EXTRACOMUNITARI RESIDENTI




Sentenza G.I.P. di Trento - dott. C. Ancona - dd. 16/09/2010


Il cittadino straniero, che ha conseguito la residenza anagrafica italiana, è tenuto entro un anno dall’acquisizione a convertire la propria patente di guida straniera in quella italiana.

Questo a grandi linee è quanto prescrive il Codice della Strada; ma se per i cittadini stranieri comunitari la conversione della patente è un fatto pressoché automatico, non lo è altrettanto per i cittadini extracomunitari, costretti a sottostare alla stessa trafila di un neopatentato e spesso ignari delle gravi conseguenze se colti a circolare senza la patente di guida italiana.


E’ quanto accaduto ad una cittadina extracomunitaria, ma residente in Trentino da oltre un anno, che era stata colta a circolare sprovvista di patente italiana, ma con patente di guida internazionale in corso di validità: fermata per un controllo di routine, alla donna era stata contestata dalla Polizia Stradale la guida senza patente, anziché più correttamente la guida con patente scaduta di validità.


Prescrive, infatti, il Codice della Strada che al cittadino extracomunitario residente in Italia da oltre un anno e colto a circolare con la sola patente estera in corso di validità, debba essere contestato l’illecito di guida con patente italiana scaduta di validità (una violazione che comporta solo un’ammenda da poche centinaia di euro), ma non costituente reato penale.


Ciò nonostante, facendo leva su di una circolare interpretativa del Ministero degli Interni, gli Agenti avevano contestato alla donna la guida senza patente, con deferimento degli atti alla Procura della Repubblica e ritiro del documento abilitativo internazionale.


La donna - assistita dall’avvocato Luca Conti - dapprima impugnava la contravvenzione in sede amministrativa, ottenendone dal Giudice di Pace il pariziale annullamento e la derubricazione dell’illecito da "guida senza patente" alla violazione meno grave di "guida con patente scaduta di validità".


Nel frattempo, però, gli atti erano finiti alla Procura della Repubblica di Trento, che aveva chiesto ed ottenuto un decreto penale di condanna della donna al pagamento di un’ammenda di ben 1.200 euro per il reato di guida senza patente. 


Al decreto penale di condanna si opponeva l’avvocato Luca Conti per insussistenza del reato contestato: all’esito del processo con rito abbreviato, il 16 settembre 2010 in accoglimento della tesi difensiva il G.I.P. presso il Tribunale di Trento mandava assolta l’imputata perché il fatto non costituisce reato, annullando la precedente condanna ed ordinando alle Autorità Amministrative la restituzione alla donna del documento di circolazione internazionale.

Avv. Luca Conti [Avvocato del Foro di Trento].

RESPONSABILITÀ SANITARIA - FOCUS 2011



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L’EVOLUZIONE DELLA RESPONSABILITA’ SANITARIA

 

FOCUS 2011

 

Tradizionalmente, la RESPONSABILITA’ DEGLI OPERATORI SANITARI era inquadrata come un’obbligazione di mezzi e non come un’obbligazione di risultato; di più, la RESPONSABILITA’ SANITARIA era inquadrata nell’alveo della cd. RESPONSABILITA’ EXTRACONTRATTUALE ai sensi dell’art. 2043 c.c., con la conseguenza che incombeva sul paziente danneggiato l’onere di provare non solo la condotta illecita (commissiva ovvero omissiva) dell’operatore sanitario ed il danno alla salute quale fatto costitutivo del diritto al risarcimento, ma anche il nesso di causalità tra la condotta e la conseguenza dannosa.

 

Nel corso degli ultimi anni la responsabilità sanitaria ha subìto una profonda evoluzione, approssimandosi per molti aspetti alla cd. OBBLIGAZIONE DI RISULTATO. 

 

In passato, la fonte della responsabilità extracontrattuale per danni derivanti da medical malpractice era incardinata sulla colpa dell'operatore sanitario mentre l’accertamento della responsabilità dell’operatore era subordinata all’inosservanza della diligenza qualificata, la cui prova però doveva essere fornita dal paziente. 

Infatti, chi assumeva di avere subìto un danno alla salute quale conseguenza di un trattamento sanitario errato, doveva allegare non solo la prova del rapporto intercorso con l’operatore sanitario e l’aggravamento del proprio quadro clinico, ma anche la prova che il danno sofferto era diretta conseguenza del fatto colposo altrui, ossia doveva provare il nesso eziologico tra la condotta e l’evento dannoso.

 
Grazie all’evoluzione giurisprudenziale, l’inquadramento della responsabilità sanitaria  ruota oggi nell’ambito della RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE e delle OBBLIGAZIONI DI RISULTATO, almeno per quanto attiene agli interventi routinari: l’operatore sanitario si obbliga nei confronti del paziente a raggiungere un determinato risultato avuto riguardo del pregresso quadro clinico, il cui mancato conseguimento, ovvero l’aggravamento della pregressa patologia, costituisce un inadempimento contrattuale e lo obbliga al risarcimento del danno, la cui esclusione è subordinata alla prova che l’impossibilità di eseguire la prestazione è dipesa da cause a lui non imputabili (art. 1218 c.c.).


Che cosa è, dunque, cambiato negli ultimi decenni? In parole povere, mentre prima chi agiva in giudizio lamentando un danno alla salute doveva allegare (anche e soprattutto) la prova della responsabilità dell'operatore sanitario (nesso eziologico), oggi invece il paziente deve solo fornire la PROVA DEL RAPPORTO CONTRATTUALE intercorso con la struttura sanitaria e/o col singolo operatore sanitario e la PROVA DEL DANNO ALLA SALUTE, mentre incomberà sul soggetto obbligato ad eseguire la prestazione in favore del paziente di fornire la prova liberatoria, ossia che la prestazione è divenuta impossibile per causa a lui non imputabile, il ché libera l’operatore dall’obbligo di risarcire il danno.

 

Nell’ottica che precede, la responsabilità sanitaria delle STRUTTURE ORGANIZZATE PUBBLICHE E PRIVATE si fonda sull’art. 1218 c.c. (responsabilità contrattuale del debitore) e sull’art. 1228 c.c. (responsabilità del debitore per il fatto degli ausiliari).

 

Il rapporto che lega il paziente alla struttura sanitaria può essere inquadrato come un “contratto a prestazioni corrispettive, atipico con effetti protettivi a favore di terzo; ne segue che in presenza di un contratto di spedalità, allorché sia dedotta in giudizio una fattispecie di responsabilità per inadempimento dell’attività medico-chirurgica a carico dell’operatore sanitario e della struttura, l’inquadramento è da ricondursi alla responsabilità per inadempimento (art.1218 c.c.) e a quella per fatto degli ausiliari (art.1228 c.c.).

 

La Sentenza della Corte di Cassazione n.8826/2007 ha sancito la responsabilità contrattuale dell’ente ospedaliero, sia in relazione ai fatti propri d’inadempimento sia in relazione alla condotta degli operatori di cui si avvale. Tuttavia, vertendosi in un “contratto atipico con effetti protettivi a favore di terzo”, alla responsabilità della struttura sanitaria per il fatto degli ausiliari, può benissimo concorrere anche la responsabilità fondata sulla colpa della struttura stessa ex art. 1218 c.c., allorché l’evento dannoso in capo al paziente sia conseguenza di disfunzioni o carenze organizzative della struttura stessa.

 

Tale quadro ha portato notevoli benefici ai pazienti non solo in termini di assolvimento dell’onere della prova, ma anche in tema di prescrizione dell’azione di risarcimento e di scelta del Foro competente: mentre nel precedente inquadramento giuridico (responsabilità extracontrattuale) l’azione risarcitoria si prescriveva in cinque anni dal fatto, attualmente la prescrizione è decennale trovando fondamento nell’inadempimento contrattuale; ed attesa la natura contrattuale del rapporto che lega il paziente alla struttura, il Foro competente a conoscere la causa di risarcimento non sarà più quello tipico del convenuto, ma piuttosto quello dove risiede il paziente/consumatore, come previsto dall’art. 33 del Codice del Consumo (D. Lgs. 206/2005).

 

(a cura di Avv. Luca Conti)