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venerdì 18 novembre 2016

IL CONTRATTO D'OPERA







ASPETTI PRATICI E PROFILI PATOLOGICI
DEL CONTRATTO D'OPERA




Tra i contratti tipici, stipulati con maggior frequenza, spicca senza dubbio il contratto d'opera, regolato dagli artt. 2222 e ss. c.c.
Il contratto d'opera è il contratto tipico, a titolo oneroso ed a prestazioni corrispettive, con cui una persona (di regola un artigiano o un libero professionista) si obbliga nei confronti del committente ad eseguire l'esecuzione di un'opera ovvero di un servizio verso un corrispettivo in denaro, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione rispetto al committente.
E' un contratto che non richiede la forma scritta posto che per il suo perfezionamento basta il semplice consenso delle parti in qualunque modo manifestato. 
A questo proposito, la Corte di Cassazione ha ritenuto che "l'incarico professionale può essere conferito in qualsiasi forma idonea a manifestare il consenso delle parti e la prova dell'avvenuto incarico grava sull'attore" (Cass. civ. Sez. II dd. 10/02/2006, n.3016).
Il contratto d'opera si distingue da un altro contratto tipico che per certi aspetti presenta caratteristiche di affinità - il contratto d'appalto regolato dagli artt. 1655 e ss. c.c. - per il fatto che mentre nel primo chi esegue l'opera utilizza prevalentemente il proprio lavoro (ditte individuali e liberi professionisti), nel secondo chi esegue l'opera lo fa sotto forma d'impresa, e dunque con un'organizzazione più articolata di mezzi e di uomini (media e grande impresa).
Un'altra differenza tra il contratto d'opera ed il contratto d'appalto riguarda i termini entro i quali il committente deve denunciare la presenza di vizi / difetti (art. 2226 c.c.) come vedremo più avanti.


L'ESECUZIONE DELL'OPERA A REGOLA D'ARTE 

Il prestatore d'opera deve eseguire quanto gli è stato commissionato secondo la "regola dell'arte e della tecnica" (art. 1176 comma II c.c.): il che significa che l'opera commissionata non dovrà solo risultare esteticamente bella, ma dovrà anche essere funzionale e sicura, dunque idonea all'uso cui è destinata.
L'inosservanza del dovere di diligenza che si richiede al prestatore d'opera (sia esso lavoratore autonomo o libero professionista intellettuale) può avere conseguenze sia in termini di risoluzione del contratto (art.1454 c.c.), sia in ordine al pagamento del prezzo pattuito (artt.2226 e 1668 c.c.), ed infine in ordine al risarcimento dei danni eventualmente subìti dal committente a causa dell'inadempimento dell'esecutore. 
Sebbene nel contratto d'opera non esista una norma specifica per quanto riguarda la "verifica dell'opera", è opinione comunemente diffusa in dottrina ed in giurisprudenza che sia applicabile per analogia l'art.1662 c.c. relativo al contratto d'appalto: pertanto, come nel contratto d'appalto, così anche nel contratto d'opera il committente ha il diritto / dovere di verificare in corso d'opera l'andamento dei lavori e, nel caso che questi non siano soddisfacenti, può imporre al prestatore d'opera di conformarsi alle sue direttive entro un congruo termine.
Infatti, se il prestatore d'opera non esegue l'opera ovvero la esegue in spregio alla "regola dell'arte e della tecnica", il committente può fissare un congruo termine entro il quale il prestatore d'opera deve ultimare i lavori oppure conformare quanto eseguito alla regola dell'arte (artt. 1454 e 2224 c.c.): si tratta - in questo caso - della cd. "diffida ad adempiere", ossia l'atto scritto (dichiarazione formale scritta) col quale il committente intima (ossia ordina) all'esecutore dell'opera di conformarsi alle direttive ricevute entro un congruo termine, che di prassi non può essere inferiore a quindici giorni (art. 1454 comma II c.c.). E' tuttavia ammissibile anche un termine di adempimento più breve, avuto riguardo degli usi e del tipo di opere che deve essere eseguita.
Decorso inutilmente il termine di adempimento senza che il prestatore d'opera abbia portato a termine i lavori, il contratto s'intenderà automaticamente risolto (art. 1454 c.c.).
Dunque, in caso di inadempimento totale o parziale del prestatore d'opera, il committente può avvalersi della risoluzione del contratto (art. 1453 e ss. c.c.), fermo restando il risarcimento del danno subìto.
L'inadempimento, tuttiavia, deve essere di una certa gravità per porter legittimare il committente a diffidare il prestatore d'opera e poi avvalersi della risoluzione: infatti, ai sensi dell'art. 1455 c.c. non può esserci risoluzione se l'inadempimento è di scarsa importanza, tenuto conto dell'economia generale del contratto.


LA DETERMINAZIONE DEL CORRISPETTIVO

Come si è detto più sopra, il contratto d'opera è un contratto a titolo oneroso: il primo parametro per determinare il corrispettivo dell'opera è l'accordo intervenuto tra le parti all'atto del conferimento dell'incarico (art. 2225 c.c.), in difetto del quale si farà ricorso alle tabelle o alle tariffe vigenti, agli usi, oppure in estremo subordine sarà determinato da un giudice, avuto riguardo della natura dell'opera, del risultato ottenuto e del lavoro necessario per eseguirlo.
Nella prassi quotidiana, è sempre conveniente per l'esecuzione di opere complesse e di un certo costo concordare ex ante col prestatore d'opera il corrispettivo finale, ad esempio facendosi rilasciare un preventivo scritto con un capitolato dettagliato di tutti i lavori. Il rilascio di un preventivo scritto e sottoscritto da entrambe le parti prima dell'esecuzione del contratto garantisce tanto il committente quanto il prestatore d'opera: il primo perché potrà evitare un'eccessiva lievitazione del prezzo finale oltre i limiti della normale tollerabilità; il secondo (soprattutto se si tratta di un prestatore d'opera intellettuale) perchè, in caso di mancato pagamento del prezzo, potrà ricorrere de plano all'Autorità Giudiziaria per ottenere l'ingiunzione di pagamento del prezzo pattuito, senza prima dover passare attraverso l'opinamento della parcella da parte del proprio ordine professionale (si pensi al caso dei commercialisti, degli avvocati, dei procuratori, etc.).
Infatti, se il corrispettivo è già stato concordato tra le parti, il giudice investito della controversia non ha alcun potere discrezionale. Al contrario, se l'accordo manca, il giudice investito della relativa causa dovrà seguire l'ordine gerarchico stabilito dall'art. 2225 c.c., preferendo prima le tabelle / tariffe professionali, gli usi ed infine la valutazione comparativa tra l'opera eseguita ed il lavoro necessario per realizzarla. 
Sulla rilevanza dell’accordo intervenuto tra le parti per la determinazione del compenso si segnalano plurime sentenze della giurisprudenza di merito e di legittimità, secondo le quali (nelle fattispecie all’esame delle corti si parla di prestatore d’opera intellettuale, ma lo setsso principio è applicabile per analogia anche al lavoratore autonomo / artigiano) "nella determinazione del compenso dovuto al prestatore d’opera il giudice investito della relativa controversia è vincolato all’accordo delle parti e solo in mancanza di esso può fare riferimento ai criteri sussidiari individuati dal codice civile" (Trib. Napoli, Sez. XII, dd. 28/01/2013 n.1218; Cass. Civ., Sez. II, dd. 18/09/2012 n.15628; Cass. Civ., Sez. VI, dd. 29/12/2011 n.29837).


LA VERIFICA DELL'OPERA E LA DENUNCIA DEI VIZI

Una volta eseguita l'opera, questa viene consegnata al committente, che ha il dovere di verificarla: l'accettazione espressa oppure tacita dell'opera, libera il prestatore dalla conseguente responsabilità per vizi / difetti (art. 2226 c.c.).
La consegna dell'opera, dunque, è cosa ben diversa dall'accettazione: l'opera può essere consegnata, ma non accettata dal committente in presenza di vizi / difetti che ne diminuiscono il valore, ovvero che ne compromettono il normale utilizzo.
Nella prassi quotidiana, i vizi / difetti dell'opera sono quelle variazioni dell'opera rispetto al progetto originario che ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore, ovvero che la rendono inidonea - in tutto o in parte - all'uso cui è destinata.
In presenza di vizi o difetti, il prestatore d'opera è soggetto alla conseguente responsabilità nei confronti del committente, il quale può - a propria scelta - chiedere che gli stessi siano eliminati senza oneri aggiunti, oppure chiedere un'equa riduzione del prezzo, fatto salvo l'eventuale maggior danno subìto (art. 1668 c.c.). 
In caso di disaccordo col prestatore d'opera, al committente non resterà che agire in giudizio chiedendo alternativamente la risoluzione del contratto e la restituzione del prezzo già versato (solo in presenza di vizi / difetti di eccezionale gravità), oppure la riduzione del prezzo pattuito commisurata al minor valore dell'opera, fatto salvo il risarcimento di ogni danno conseguente (ad esempio, gli ulteriori costi necessari per conformare l'opera alla regola dell'arte e della tecnica).
La garanzia per vizi e difetti non è tuttavia sempre operativa: il prestatore d'opera non è tenuto a prestare alcuna garanzia se i vizi erano noti o visibili al committente quando ha accettato l'opera.
Ecco, dunque, spiegato perché "l'accettazione dell'opera" è un fatto diverso dalla consegna, idoneo a liberare l'esecutore dalla garanzia per vizi / difetti cui sarebbe contrattualmente tenuto.
L'accettazione dell'opera, tuttavia, non sempre è idonea ad escludere la garanzia: infatti, l'accettazione non libera il prestatore d'opera se i vizi erano occulti, ma sarà onere del committente denunciarli per iscritto (con raccomandata a/r oppure con p.e.c.) entro e non oltre otto giorni dalla scoperta (art. 2226 comma II c.c.), pena la decadenza dalla relativa garanzia. La denuncia scritta dei vizi / difetti non è tuttavia necessaria, se all'atto della consegna il prestatore d'opera li ha dolosamente occultati.
Come si è già detto all'inizio, il termine per la denuncia dei vizi / difetti è un altro aspetto che distingue il contratto d'opera da quello d'appalto: mentre nel primo il termine di decadenza è di otto giorni dalla scoperta, nel secondo il termine è di sessanta giorni dalla scoperta.
Per quanto riguarda la denuncia dei vizi / difetti, nè l'art. 2226 c.c. (in materia di contratto d'opera) né l'art. 1667 c.c. (in materia di contratto d'appalto) prescrivono come la stessa debba essere fatta: nella prassi e soprattutto nel contratto d'opera accade che il committente denunci a voce i difetti riscontrati, il che rende quanto mai problematico in un eventuale contenzioso provare al giudice la tempestività della denuncia, che potrebbe semmai essere provata solo per testimoni. 
La denuncia scritta, dunque, è sempre la via preferenziale per evitare di incorrere nella decadenza dalla garanzia prevista dall'art. 2226 c.c.


LA DECADENZA DALLA GARANZIA PER I VIZI DELL'OPERA

E’ noto per costante insegnamento della Giurisprudenza di merito e di legittimità che "incombe sul committente, una volta che l’opera sia stata consegnata, l’onere fornire al Giudicante la prova della tempestività della denuncia dei vizi" (Giudice di Pace Milano, Sez. VIII, dd. 11/02/2016, n.1458; Cass. Civ., Sez. II, dd. 11/03/2015, n.4908; Tribunale di Milano, Sez. VII, dd. 05/03/2015, n.2961; Tribunale di Cagliari dd. 25/02/2015, n.635; Tribunale di Frosinone, dd. 04/12/2014, n.1053)
Illuminante a questo riguardo è la Sentenza del Tribunale di Milano dd. 05/03/2015 n.2961 pronunciata in un contenzioso avente ad oggetto la garanzia per difformità e vizi nel contratto d’appalto ma applicabile per analogia anche al contratto d’opera: "l’accettazione dell’opera segna il discrimine ai fini della distribuzione dell’onere della prova, nel senso che, fino a quando l’opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell’esistenza dei vizi, gravando sull’appaltatore l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto ed alle regole dell’arte. Viceversa, una volta che l’opera sia stata positivamente verificata, anche “per facta concludentia”, spetta al committente, che l’ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l’esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate, giacché l’art. 1667 c.c. indica nel medesimo committente la parte gravata dall’onere della prova di tempestiva denuncia dei vizi (…) orbene, nel caso di specie, ribadito che il convenuto non si era limitato a ricevere l’opera, ma l’aveva accettata, seppure in forma tacita, attraverso il pagamento delle fatture, il medesimo, a fronte della tempestiva eccezione di decadenza formulata dall’attrice, non aveva provato la tempestiva denuncia dei vizi e difetti nel termine di sessanta giorni dalla scoperta come previsto dall’art. 1667, comma 3, c.c., con conseguente decadenza dalla relativa azione". 
Di particolare interesse è anche una recente Sentenza del Tribunale di Cagliari (sentenza dd. 25/02/2015, n.635), secondo la quale "il contratto qualificabile alla stregua di un contratto d'opera è soggetto all'applicazione dell'art. 2222 e ss. c.c. La denuncia dei vizi dell'opera soggiace, pertanto, al termine di 8 giorni dalla scoperta del vizio stesso mentre la relativa azione si prescrive entro un anno dalla consegna. L'eccezione, da parte del prestatore d'opera, dell'intervenuta decadenza del committente dalla denuncia dei vizi, pone a carico di quest'ultimo l'onere di dimostrare di avere, al contrario, tempestivamente denunciato i vizi stessi, costituendo tale denuncia una condizione dell'azione ai sensi dell’art. 2226 comma II c.c. Nel caso concreto, a fronte dell'eccezione di decadenza sollevata dal prestatore d'opera, il committente sul quale incombeva l'onere di dimostrare la tempestività della denuncia non ha fornito in giudizio alcuna prova della data della scoperta dei vizi lamentati e della tempestiva denuncia degli stessi, non potendosi considerare denunce di vizi le lettere raccomandate inoltrate al prestatore d'opera non contenenti alcun riferimento, seppure generico, ai vizi dell'opera".
In ogni caso e fermo restando il termine di otto giorni per denunciare i vizi / difetti, l'azione di responsabilità nei confronti del prestatore d'opera si prescrive in un anno dalla consegna dell'opera: ragione per cui il committente che intende agire in giudizio per far valere detta garanzia e/o chiedere il risarcimento dei danni subìti, dovrà non solo dimostrare di avere tempestivamente denunciato i vizi, ma dovrà anche notificare l'atto di citazione a giudizio entro e non oltre l'anno dalla consegna dell'opera, decorso inutilmente il quale l'azione giudiziale diventerà inammissibile.

(a cura di Avv. Luca Maria Conti).


giovedì 3 novembre 2016

E' AMMISSIBILE LA DOMANDA GIUDIZIALE PROMOSSA CON UN ATTO FORMATO SECONDO UN MODELLO LEGALE DIFFERENTE DA QUELLO PREVISTO DAL CODICE DI RITO











IL RAGGIUNGIMENTO DELLO SCOPO CUI L’ATTO E’ DESTINATO

SCONGIURA LA PRONUNCIA D’INAMMISSIBILITA’ DELLA DOMANDA

Nella prassi giudiziaria può capitare d’introdurre un giudizio con un atto non conforme al modello legale normativamente previsto (ad esempio ricorso piuttosto che atto di citazione): altrimenti detto, può accadere che s’introduca erroneamente con atto di citazione un giudizio che si dovrebbe svolgere secondo il rito camerale e che - pertanto - andrebbe introdotto con ricorso, oppure viceversa che s’introduca erroneamente con ricorso un giudizio che si dovrebbe svolgere secondo il rito ordinario e che - pertanto - andrebbe introdotto con atto di citazione.

A questo punto ci si domanda se all’errore nella scelta del modello legale dell’atto introduttivo (e conseguentemente del rito) segua necessariamente “l’inammissibilità della domanda” promossa da chi agisce in giudizio.

A parere di chi scrive la risposta è negativa: a tale errore, infatti, non può conseguire necessariamente una declaratoria d’inammissibilità della domanda, ove le norme di rito che la controparte convenuta a giudizio assume violate non dispongano espressamente che il giudizio doveva essere introdotto con un tipo di atto piuttosto che un altro sotto pena di inammissibilità; oltre a ciò occorre verificare se l’atto erroneamente formato sia comunque idoneo a raggiungere lo scopo cui è destinato senza ledere il diritto di difesa della controparte.

Si pensi - ad esempio - ai giudizi di revisione in materia di “esercizio della responsabilità genitoriale e/o entità dell’assegno di mantenimento da somministrare ai figli e/o al coniuge”: ai sensi degli artt. 737 e ss. c.p.c. e artt. 336, 337 quinquies c.c. detti giudizi devono essere introdotti con ricorso indirizzato al Tribunale e si svolgono secondo il rito camerale: ma se per errore il giudizio di revisione venisse introdotto con atto di citazione anziché con ricorso, ne seguirebbe necessariamente una declaratoria di inammissibilità della domanda promossa dall’attore?
 
Come già accennato, una possibile censura di inammissibilità della domanda per violazione delle norme pocanzi richiamate sarebbe destituita di fondamento ed in ogni caso superabile, ove l’atto introduttivo del giudizio fosse idoneo a raggiungere lo scopo normativamente previsto.

Per meglio comprendere la questione, occorre prima precisare cosa s’intende per “inammissibilità”.
L’inammissibilità è la sanzione processuale che si riferisce alle domande ed alle istanze rivolte al Giudice, ed è conseguenza dell’atto di parte che difetti di un presupposto o di un elemento indispensabile per inserirsi validamente nel processo.
Detta sanzione è espressamente prevista dal codice di procedura civile rispetto a particolari mezzi d’impugnazione, quali - ad esempio - i casi disciplinati dagli artt. 331, 342, 348 bis, 365, 360 bis e 398 c.p.c. 

Solo nei casi espressamente previsti dal codice di rito i vizi cui fa seguito l’inammissibilità della domanda sono rilevabili d’ufficio e non sono sanabili.
Nel caso qui in esame - giudizi di revisione di pregresse statuizioni in materia di responsabilità genitoriale ed entità dell’assegno di mantenimento - non si rientra nell’ambito dei “giudizi d’impugnazione” bensì appunto “di revisione”.
Pare rilevante, inoltre, che nessuna delle norme regolanti detti giudizi (artt. 737 e ss. c.p.c., 336, 337 quinquies c.c.) preveda espressamente la sanzione processuale della “inammissibilità della domanda ove l’atto introduttivo non abbia rispettato il modello legale ivi previsto.

Ed infatti:
l’art. 737 c.p.c. dispone che “i provvedimenti che debbono essere pronunciati in camera di consiglio si chiedono con ricorso al giudice competente ed hanno forma di decreto motivato”;
l’art. 336 c.c. dispone che “i provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati su ricorso dell'altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si tratta di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore interessato. Il tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito il pubblico ministero; dispone, inoltre, l'ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento. Nei casi in cui il provvedimento è richiesto contro il genitore, questi deve essere sentito. In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche d'ufficio, provvedimenti temporanei nell'interesse del figlio. Per i provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti da un difensore”.
l’art. 337 quinquies c.c. dispone che “i genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura ed alla modalità del contributo”.

Tanto premesso, la dottrina più autorevole nega una propria autonomia logico-giuridica alla nozione di “inammissibilità”, ragione per cui si ritiene che la relativa disciplina - ove carente - debba essere integrata con quella prevista in materia di “nullità degli atti”, ivi compreso l’art. 156 terzo comma c.p.c. a tenore del quale: la nullità non può mai essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato”.

Questo assunto è talmente vero che persino la CORTE DI CASSAZIONE ha ritenuto che “(…) un vizio formale è insanabile e rilevabile d’ufficio solo quando ricorre l’espressa previsione del requisito “a pena di inammissibilità (…)”, così sottraendo alla disponibilità delle parti il raggiungimento dello scopo dell’atto (si veda Cass. Civ., Sez. III, Ordinanza dd. 26/02/2008, n.4960).
Altrimenti detto: in alcuna delle norme pocanzi richiamate il legislatore ha inteso sottrarre alla disponibilità delle parti il raggiungimento dello scopo dell’atto, non essendo normativamente prescritto che l’atto introduttivo debba assumere una certa forma “sotto pena di inammissibilità della domanda”.

Inoltre, se la controparte convenuta a giudizio prende posizione rispetto alle domande formulate dall’attore ribattendo punto su punto ed, anzi, formulando a propria volta domande riconvenzionali nei confronti dell’attore, starebbe proprio ad indicare che l’atto introduttivo, sebbene erroneamente formato secondo un modello legale differente da quello normativamente previsto, ha comunque raggiunto il proprio scopo, perché:
Ø la controparte è stata posta nella condizione obiettiva di potersi difendere;
Ø il Giudice è stato posto nella condizione obiettiva di poter decidere nel merito della controversia.

Altre possibili conseguenze dell'atto introduttivo formato secondo un modello legale diverso da quello normativamente previsto potrebbe riguardare la scelta del rito (tra ordinario e camerale) e l’intervento del P.M. nelle cause in cui questo è obbligatorio per legge.
In questo caso, l’omesso intervento del P.M. sin dalla fase introduttiva del giudizio (ordinario anziché camerale) potrebbe essere causa di “inammissibilità della domanda” promossa dall’attore?
Anche in questo caso la risposta -  a parere di chi scrive - è negativa: e ciò perché il vizio relativo al mancato intervento del P.M. è dichiarato insanabile dall’art. 158 c.p.c. soltanto con riguardo alla sentenza che definisce il giudizio, e non riguarda invece gli atti anteriormente formatisi in sua assenza. 

Infatti, ai sensi dell’art. 3 disp. att. c.p.c. regolante gli “interventi davanti al Collegio il P.M. può spiegare il proprio intervento sino all’udienza di discussione dinnanzi al Collegio (ex multis Cass. Civ., Sez. I, dd. 27/01/1998, n.807; Cass. Civ., Sez. I, dd. 23/11/2004 n.22106).

Altrimenti detto: se ai sensi dell’art.3 disp. att. c.p.c. il P.M. può spiegare il proprio intervento sino all’udienza di discussione finale innanzi al Collegio, il suo mancato intervento all’origine del giudizio (quale conseguenza della scelta del rito ordinario introdotto con citazione, al posto del rito camerale introdotto con ricorso) non costituisce un vizio né insuperabile né tanto meno insanabile, bastando disporre la conversione del rito da ordinario a camerale ed ordinando la trasmissione degli atti alla Procura.

A questo riguardo, va anche detto che in applicazione del principio generale della conservazione degli atti processuali è esente da nullità il giudizio celebrato secondo il rito ordinario anziché con quello camerale disciplinato dagli artt.737 e ss. c.p.c. 

La Giurisprudenza di legittimità e quella di merito, infatti, ritengono che: “(…) in virtù del principio generale della conservazione degli atti processuali, è esente da nullità il giudizio di dichiarazione di paternità celebrato con il rito ordinario anzichè con quello camerale ex artt. 737 e ss. c.p.c. (…)”  (Cass. Civ., Sez. I, dd. 20/03/1999, n.2572); ed ancora: “(…) ai sensi dell'art. 4, comma 1, D. Lgs. n.150/2011, quando una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dalla legge, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza (…)” (Tribunale di Varese, Sez. Civile, Sentenza dd. 03/10/2012).

La più autorevole dottrina ritiene, inoltre, che anche nel caso contrario di adozione del rito camerale al posto di quello ordinario non si verificherebbe alcuna nullità o improcedibilità, ove non sia provato dalle parti costituite in giudizio che dall’erronea inversione del rito sia derivato un effettivo pregiudizio per alcuna di esse relativamente al rispetto del contraddittorio, all’acquisizione delle prove e più in generale a quant’altro possa avere leso la libertà di difesa.

Su quest’ultimo aspetto è intervenuta la Corte di Cassazione che ha così giudicato: “(…) l'adozione del rito camerale in luogo di quello ordinario non induce alcuna nullità (o improcedibilità) ove, in concreto, non venga eccepito e provato che dall'erronea inversione sia derivato un effettivo pregiudizio per alcuna delle parti relativamente al rispetto del contraddittorio, all'acquisizione delle prove e, più in generale, a quant'altro possa aver impedito o anche soltanto ridotto la libertà di difesa consentita nel giudizio ordinario. Infatti, anche a volere ritenere nullo l'atto introduttivo non conformato secondo il modello legale (ricorso anziché citazione), occorre tenere conto che tale nullità rientrerebbe pur sempre fra quelle formali di cui all'art. 156 cod. proc. civ., sanabili col raggiungimento dello scopo (…)(si veda Cass. Civ., Sez. I, dd. 18/08/2006, n.18201).

Ad abundantiam vale la pena di citare una risalente pronuncia del Tribunale di Mantova del 11/09/1989 (si veda T. Mantova dd. 11/09/1989 in F.I. 1990, I, 2638) che pare dirimente di ogni possibile dubbio rispetto al quesito posto all’inizio: “il procedimento per la revisione dei provvedimenti riguardanti il coniuge e la prole viene introdotto con ricorso ed è celebrato secondo il rito camerale. Tuttavia, trattandosi di un giudizio che ha effettiva natura contenziosa e che si chiude con un provvedimento che malgrado la veste di decreto motivato ha natura sostanziale di sentenza si deve ritenere non precluso l’esame della domanda di revisione proposta erroneamente con atto di citazione”.

Ultima possibile conseguenza dell’atto introduttivo erroneamente formato e dell’erronea scelta del rito, potrebbe essere l’inosservanza dell’art. 50 bis c.p.c. riguardante la ripartizione delle competenze tra Tribunale monocratico e collegiale: all’inosservanza di detta norma potrebbe conseguire una declaratoria di “inammissibilità della domanda”?

Anche qui, la risposta non cambia.
Ed infatti, il successivo art. 50 quater c.p.c. sancisce che “le disposizioni di cui agli artt. 50 bis e ter c.p.c. non si considerano attinenti alla costituzione del giudice. Alla nullità derivante dalla loro inosservanza si applica l’art. 161 primo comma c.p.c.”.
Detta norma disciplina, pertanto, che cosa accade quando non vengono osservate le norme relative al riparto di competenza tra giudice monocratico e giudice collegiale.
Prima della legge di riforma n. 51/1998 la violazione dei criteri di riparto tra giudice monocratico e collegiale era considerata come motivo di nullità della sentenza e ricondotta nell’alveo di applicazione dell’art. 158 c.p.c. (vizio di costituzione del giudice).
Ma con la legge di riforma n.51/1998 la violazione delle norme in materia di ripartizione delle competenze tra giudice monocratico e collegiale è stata sottratta alla disciplina del vizio di costituzione del giudice, ricadendo espressamente nell’ambito dell’art. 161 c.p.c., cosicché essa viene a costituire una vera e propria eccezione alla regola della insanabilità e della rilevabilità d’ufficio: la violazione di dette norme costituisce solo uno specifico motivo d’impugnazione della sentenza (come anche affermato dalle S.U. della Corte di Cassazione nella sentenza n.28040 del 25/11/2008), ma giammai costituisce causa d’inammissibilità della domanda introduttiva.

(a cura di Avv. Luca Conti del foro di Trento)