E' AMMISSIBILE LA DOMANDA GIUDIZIALE PROMOSSA CON UN ATTO FORMATO SECONDO UN MODELLO LEGALE DIFFERENTE DA QUELLO PREVISTO DAL CODICE DI RITO
IL RAGGIUNGIMENTO DELLO
SCOPO CUI L’ATTO E’ DESTINATO
SCONGIURA LA PRONUNCIA D’INAMMISSIBILITA’
DELLA DOMANDA
Nella prassi giudiziaria
può capitare d’introdurre un giudizio con un atto non conforme al modello
legale normativamente previsto (ad esempio ricorso piuttosto che atto di citazione):
altrimenti detto, può accadere che s’introduca erroneamente con atto di
citazione un giudizio che si dovrebbe svolgere secondo il rito camerale e che
- pertanto - andrebbe introdotto con ricorso, oppure viceversa che s’introduca
erroneamente con ricorso un giudizio che si dovrebbe svolgere secondo il rito ordinario
e che - pertanto - andrebbe introdotto con atto di citazione.
A questo punto ci si
domanda se all’errore nella scelta del modello legale dell’atto introduttivo (e conseguentemente del rito) segua
necessariamente “l’inammissibilità della
domanda” promossa da chi agisce in giudizio.
A parere di chi scrive la
risposta è negativa: a tale errore, infatti, non può conseguire necessariamente una
declaratoria d’inammissibilità della domanda, ove le norme di rito che la
controparte convenuta a giudizio assume violate non dispongano
espressamente che il giudizio doveva essere introdotto con un tipo di atto
piuttosto che un altro “sotto pena di
inammissibilità”; oltre a ciò occorre verificare se l’atto erroneamente
formato sia comunque idoneo a raggiungere lo scopo cui è destinato senza
ledere il diritto di difesa della controparte.
Si pensi - ad esempio - ai
giudizi di revisione in materia di “esercizio della responsabilità genitoriale
e/o entità dell’assegno di mantenimento da somministrare ai figli e/o al
coniuge”: ai sensi degli artt. 737 e ss. c.p.c. e artt. 336, 337 quinquies
c.c. detti giudizi devono essere introdotti con ricorso indirizzato al
Tribunale e si svolgono secondo il rito camerale: ma se per errore il
giudizio di revisione venisse introdotto con atto di citazione anziché con
ricorso, ne seguirebbe necessariamente una declaratoria di inammissibilità della
domanda promossa dall’attore?
Come già accennato, una possibile
censura di inammissibilità della domanda
per violazione delle norme pocanzi richiamate sarebbe destituita di fondamento ed
in ogni caso superabile, ove l’atto introduttivo del giudizio fosse idoneo a
raggiungere lo scopo normativamente previsto.
Per
meglio comprendere la questione, occorre prima precisare cosa s’intende per “inammissibilità”.
L’inammissibilità
è la sanzione processuale che si riferisce alle domande ed alle istanze rivolte
al Giudice, ed è conseguenza dell’atto di parte che difetti di un presupposto o
di un elemento indispensabile per inserirsi validamente nel processo.
Detta
sanzione è espressamente prevista dal codice di procedura civile rispetto a
particolari mezzi d’impugnazione, quali - ad esempio - i casi disciplinati
dagli artt. 331, 342, 348 bis, 365, 360 bis
e 398 c.p.c.
Solo
nei casi espressamente previsti dal codice di rito i vizi cui fa seguito “l’inammissibilità della domanda” sono
rilevabili d’ufficio e non sono sanabili.
Nel
caso qui in esame - giudizi di revisione di pregresse statuizioni in materia di
responsabilità genitoriale ed entità dell’assegno di mantenimento - non si rientra
nell’ambito dei “giudizi d’impugnazione”
bensì appunto “di revisione”.
Pare
rilevante, inoltre, che nessuna delle norme regolanti detti giudizi (artt. 737 e
ss. c.p.c., 336, 337 quinquies c.c.) preveda espressamente la sanzione
processuale della “inammissibilità della
domanda” ove l’atto introduttivo
non abbia rispettato il modello legale ivi previsto.
Ed
infatti:
l’art.
737 c.p.c. dispone che “i provvedimenti
che debbono essere pronunciati in camera di consiglio si chiedono con ricorso
al giudice competente ed hanno forma di decreto motivato”;
l’art. 336 c.c. dispone che “i provvedimenti indicati negli articoli precedenti sono adottati su
ricorso dell'altro genitore, dei parenti o del pubblico ministero e, quando si
tratta di revocare deliberazioni anteriori, anche del genitore interessato. Il
tribunale provvede in camera di consiglio, assunte informazioni e sentito il
pubblico ministero; dispone, inoltre, l'ascolto del figlio minore che abbia
compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.
Nei casi in cui il provvedimento è richiesto contro il genitore, questi deve
essere sentito. In caso di urgente necessità il tribunale può adottare, anche
d'ufficio, provvedimenti temporanei nell'interesse del figlio. Per i
provvedimenti di cui ai commi precedenti, i genitori e il minore sono assistiti
da un difensore”.
l’art.
337 quinquies c.c. dispone che “i genitori hanno diritto di chiedere in ogni
tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli,
l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e
delle eventuali disposizioni relative alla misura ed alla modalità del
contributo”.
Tanto
premesso, la dottrina più autorevole nega una propria autonomia
logico-giuridica alla nozione di “inammissibilità”,
ragione per cui si ritiene che la relativa disciplina - ove carente - debba
essere integrata con quella prevista in materia di “nullità degli atti”, ivi compreso l’art. 156 terzo comma c.p.c. a
tenore del quale: “la nullità non può mai
essere pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo cui è destinato”.
Questo
assunto è talmente vero che persino la CORTE DI CASSAZIONE ha ritenuto che “(…) un vizio formale è insanabile e
rilevabile d’ufficio solo quando ricorre l’espressa previsione del requisito “a
pena di inammissibilità (…)”, così sottraendo alla disponibilità delle
parti il raggiungimento dello scopo dell’atto (si veda Cass. Civ., Sez. III,
Ordinanza dd. 26/02/2008, n.4960).
Altrimenti
detto: in alcuna delle norme pocanzi richiamate il legislatore ha inteso
sottrarre alla disponibilità delle parti il raggiungimento dello scopo
dell’atto, non essendo normativamente prescritto che l’atto introduttivo debba
assumere una certa forma “sotto pena di
inammissibilità della domanda”.
Inoltre,
se la controparte convenuta a giudizio prende posizione rispetto alle
domande formulate dall’attore ribattendo punto su punto ed, anzi, formulando a
propria volta domande riconvenzionali nei confronti dell’attore, starebbe
proprio ad indicare che l’atto introduttivo, sebbene erroneamente formato
secondo un modello legale differente da quello normativamente previsto, ha
comunque raggiunto il proprio scopo, perché:
Ø la controparte è stata
posta nella condizione obiettiva di potersi difendere;
Ø il Giudice è stato posto
nella condizione obiettiva di poter decidere nel merito della controversia.
Altre
possibili conseguenze dell'atto introduttivo formato secondo un modello legale diverso da quello normativamente previsto potrebbe riguardare la scelta del rito (tra ordinario e camerale) e l’intervento
del P.M. nelle cause in cui questo è obbligatorio per legge.
In
questo caso, l’omesso intervento del P.M. sin dalla fase introduttiva del
giudizio (ordinario anziché camerale) potrebbe essere causa di “inammissibilità
della domanda” promossa dall’attore?
Anche
in questo caso la risposta - a parere di
chi scrive - è negativa: e ciò perché il vizio relativo al mancato intervento del
P.M. è dichiarato insanabile dall’art. 158 c.p.c. soltanto con riguardo alla
sentenza che definisce il giudizio, e non riguarda invece gli atti
anteriormente formatisi in sua assenza.
Infatti, ai sensi dell’art. 3 disp.
att. c.p.c. regolante gli “interventi
davanti al Collegio” il P.M. può
spiegare il proprio intervento sino all’udienza di discussione dinnanzi al Collegio
(ex multis Cass. Civ., Sez. I, dd.
27/01/1998, n.807; Cass. Civ., Sez. I, dd. 23/11/2004 n.22106).
Altrimenti
detto: se ai sensi dell’art.3 disp. att. c.p.c. il P.M. può spiegare il proprio
intervento sino all’udienza di discussione finale innanzi al Collegio, il suo mancato
intervento all’origine del giudizio (quale conseguenza della scelta del rito ordinario
introdotto con citazione, al posto del rito camerale introdotto con ricorso)
non costituisce un vizio né insuperabile né tanto meno insanabile, bastando disporre la conversione del rito da ordinario a camerale ed ordinando la trasmissione degli atti alla Procura.
A
questo riguardo, va anche detto che in applicazione del principio generale
della conservazione degli atti processuali è esente da nullità il giudizio
celebrato secondo il rito ordinario anziché con quello camerale disciplinato
dagli artt.737 e ss. c.p.c.
La Giurisprudenza di legittimità e quella di
merito, infatti, ritengono che: “(…) in
virtù del principio generale della conservazione degli atti processuali, è
esente da nullità il giudizio di dichiarazione di paternità celebrato con il
rito ordinario anzichè con quello camerale ex artt. 737 e ss. c.p.c. (…)” (Cass. Civ., Sez. I, dd. 20/03/1999, n.2572);
ed ancora: “(…) ai sensi dell'art. 4, comma 1,
D. Lgs. n.150/2011, quando
una controversia viene promossa in forme diverse da quelle previste dalla
legge, il giudice dispone il mutamento del rito con ordinanza (…)” (Tribunale
di Varese, Sez. Civile, Sentenza dd. 03/10/2012).
La
più autorevole dottrina ritiene, inoltre, che anche nel caso contrario di
adozione del rito camerale al posto di quello ordinario non si verificherebbe
alcuna nullità o improcedibilità, ove non sia provato dalle parti costituite in
giudizio che dall’erronea inversione del rito sia derivato un effettivo
pregiudizio per alcuna di esse relativamente al rispetto del contraddittorio,
all’acquisizione delle prove e più in generale a quant’altro possa avere leso
la libertà di difesa.
Su
quest’ultimo aspetto è intervenuta la Corte di Cassazione che ha così giudicato: “(…) l'adozione del rito camerale in luogo di
quello ordinario non induce alcuna nullità (o improcedibilità) ove, in
concreto, non venga eccepito e provato che dall'erronea inversione sia derivato
un effettivo pregiudizio per alcuna delle parti relativamente al rispetto del
contraddittorio, all'acquisizione delle prove e, più in generale, a quant'altro
possa aver impedito o anche soltanto ridotto la libertà di difesa consentita
nel giudizio ordinario. Infatti, anche a volere ritenere nullo l'atto
introduttivo non conformato secondo il modello legale (ricorso anziché
citazione), occorre tenere conto che tale nullità rientrerebbe pur sempre fra
quelle formali di cui all'art. 156 cod. proc. civ., sanabili col raggiungimento
dello scopo (…)” (si veda Cass. Civ., Sez. I, dd. 18/08/2006, n.18201).
Ad abundantiam vale la pena di citare una
risalente pronuncia del Tribunale di Mantova del 11/09/1989 (si veda T. Mantova
dd. 11/09/1989 in F.I. 1990, I, 2638) che pare dirimente di ogni possibile
dubbio rispetto al quesito posto all’inizio: “il procedimento per la revisione dei provvedimenti riguardanti il
coniuge e la prole viene introdotto con ricorso ed è celebrato secondo il rito
camerale. Tuttavia, trattandosi di un giudizio che ha effettiva natura
contenziosa e che si chiude con un provvedimento che malgrado la veste di
decreto motivato ha natura sostanziale di sentenza si deve ritenere non
precluso l’esame della domanda di revisione proposta erroneamente con atto di
citazione”.
Ultima
possibile conseguenza dell’atto introduttivo erroneamente formato e dell’erronea
scelta del rito, potrebbe essere l’inosservanza dell’art. 50 bis c.p.c. riguardante la ripartizione
delle competenze tra Tribunale monocratico e collegiale: all’inosservanza di
detta norma potrebbe conseguire una declaratoria di “inammissibilità della domanda”?
Anche
qui, la risposta non cambia.
Ed infatti,
il successivo art. 50 quater c.p.c. sancisce
che “le disposizioni di cui agli artt. 50
bis e ter c.p.c. non si considerano attinenti alla costituzione del giudice.
Alla nullità derivante dalla loro inosservanza si applica l’art. 161 primo
comma c.p.c.”.
Detta
norma disciplina, pertanto, che cosa accade quando non vengono osservate le
norme relative al riparto di competenza tra giudice monocratico e giudice
collegiale.
Prima
della legge di riforma n. 51/1998 la violazione dei criteri di riparto tra
giudice monocratico e collegiale era considerata come motivo di nullità della
sentenza e ricondotta nell’alveo di applicazione dell’art. 158 c.p.c. (vizio di
costituzione del giudice).
Ma
con la legge di riforma n.51/1998 la violazione delle norme in materia di ripartizione
delle competenze tra giudice monocratico e collegiale è stata sottratta alla
disciplina del vizio di costituzione del giudice, ricadendo espressamente
nell’ambito dell’art. 161 c.p.c., cosicché essa viene a costituire una vera e
propria eccezione alla regola della insanabilità
e della rilevabilità d’ufficio: la violazione di dette norme costituisce
solo uno specifico motivo d’impugnazione della sentenza (come anche affermato
dalle S.U. della Corte di Cassazione nella sentenza n.28040 del 25/11/2008), ma
giammai costituisce causa d’inammissibilità della domanda introduttiva.
(a cura di Avv. Luca Conti del foro di
Trento)
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