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lunedì 9 dicembre 2019

LO SCIOGLIMENTO DEL MATRIMONIO E L'ASSEGNO DIVORZILE





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LA FUNZIONE DELL’ASSEGNO DIVORZILE

Il divorzio è l’istituto giuridico che consente ai coniugi di sciogliere il vincolo matrimoniale, sia esso civile oppure religioso: nel primo caso si parla di scioglimento del matrimonio civile, nel secondo caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso.

Il divorzio è regolato dalla Legge n.898 del 01/12/1970.

Tanto nel primo quanto nel secondo caso, il coniuge economicamente più disagiato, che non sia in grado per comprovate difficoltà oggettive di garantirsi autonomamente i mezzi di sostentamento, può rivolgere al Tribunale la domanda di corresponsione del ASSEGNO DIVORZILE.

L’attribuzione ad un coniuge dell’assegno divorzile è regolata dall’art.5 comma 6 della legge 898/1970: “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

La norma in esame espone analiticamente quali sono i presupposti ed i parametri che il Tribunale deve considerare per determinare l’entità dell’assegno divorzile:
a)     le attuali condizioni economiche di ciascun coniuge;
b)    le ragioni che hanno portato alla decisione di chiedere lo scioglimento del matrimonio (ad esempio, il coniuge cui si addebitabile la colpa del divorzio per avere tenuto una condotta contraria a quelli che sono i doveri reciproci dei coniugi non ha diritto di percepire l’assegno divorzile);
c)     l’apporto dato da ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune;
d)    l’apporto dato da ciascun coniuge al nucleo famigliare;
e)     la durata del matrimonio.

Presupposto indefettibile è che il coniuge richiedente non sia in grado alla data di presentazione della domanda di reperire i mezzi necessari al proprio sostentamento a causa di comprovate difficoltà oggettive.
L’art. 5, sesto comma, prevede pertanto che al ricorrere delle condizioni sopra elencate il Tribunale possa disporre il pagamento in favore del coniuge più disagiato di un assegno periodico, che successivamente alla sentenza di divorzio potrà essere oggetto di revisione qualora sopravvengano nuove circostanze che ne giustificano la diminuzione, l’aumento ovvero l’eliminazione.

In caso di divorzio congiunto, i coniugi possono liberamente disporre che l’assegno divorzile anziché periodico sia conferito una tantum, per esempio attraverso la cessione da un coniuge all’altro di un diritto reale (ad esempio il diritto di proprietà o di usufrutto) su di un immobile.

Per quanto riguarda la “natura” dell’assegno divorzile, mentre in precedenza questo era affrancato al parametro del “TENORE DI VITA” goduto dai coniugi in costanza di matrimonio, con la sentenza n.18287/2018 la CORTE DI CASSAZIONE a S.U. ha superato l’anzidetta impostazione, con la conseguenza che oggi per determinare i criteri di calcolo dell’assegno bisogna fare riferimento ai fattori sopra elencati e - pertanto - quali le rispettive condizioni economico-patrimoniali, il contributo fornito dall'ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all'età dell'avente diritto.

Ad oggi la natura dell’assegno divorzile è del tutto mutata: “(…) l'assegno divorzile ha una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, e richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi o comunque dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l'applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione (…)” (Tribunale di La Spezia, sent. 12/08/2019).
Ed ancora: “(…) in tema di assegno di divorzio, rivestendo esso natura compensativa e assistenziale verso il coniuge più debole, laddove venga accertato che l'ex coniuge disponga di un proprio cospicuo patrimonio, il versamento dell'assegno non è più necessario. Peraltro, in tali casi, con precipuo riferimento alla restituzione delle somme già percepite a titolo di assegno divorzile non dovuto, le condizioni impeditive dell'esercizio del diritto alla ripetizione dell'indebito da parte del soggetto che le ha corrisposte sono applicabili limitatamente alle ipotesi in cui la contribuzione sia stata finalizzata a soddisfare mere esigenze di carattere alimentare, nei soli limiti, cioè, in cui siano riconducibili a prestazioni che per la loro misura e condizioni economiche del percettore possono ritenersi dirette ad assicurare unicamente i mezzi economici necessari per far fronte ad esigenze di vita, così da essere normalmente consumate per adempiere a tale destinazione” (Cass. Civ., Sez. I, Ordinanza dd. 30/08/2019, n.21926).

(a cura di Avv. Luca Conti)



lunedì 2 dicembre 2019

LA RESPONSABILITA' DEL MEDICO DENTISTA





LA RESPONSABILITA’ DEL DENTISTA
PER DANNI AL PAZIENTE


1. PREAMBOLO
Qualsiasi danno ingiusto, patrimoniale o non patrimoniale, merita di essere risarcito. Un danno è ingiusto quando è frutto della lesione di un diritto e della violazione di norme di legge, siano esse leggi civili e/o penali.
Un danno può avere, a seconda dei casi, un contenuto patrimoniale (danno emergente e/o lucro cessante) oppure non patrimoniale (danno biologico, estetico e/o morale), può derivare dall’inadempimento totale o parziale di un contratto tipico o atipico, oppure dalla violazione del più generale principio di neminem laedere, ossia dal divieto di assumere condotte illecite lesive dei diritti altrui.

Nel più ampio contesto delle pratiche di risarcimento danni, rientrano quelle derivanti da medical malpractice.

La responsabilità medica derivante medical malpractice trae origine da quello che viene comunemente definito contratto atipico di spedalità o da contatto sociale” che lega il paziente alla struttura sanitaria cui si è rivolto in cerca di cure mediche, e sussiste  ogni volta che viene dimostrato il nesso causale tra la lesione del diritto alla salute del paziente e la condotta dolosa o colposa, commissiva ovvero omissiva, dell'operatore sanitario eventualmente anche in concomitanza con le inefficienze e carenze di una struttura sanitaria.

Quando gli effetti della cura non sono quelli sperati ovvero quando l’operatore sanitario ha colposamente violato i protocolli per la cura di una determinata patologia, sorge in capo al paziente il diritto ad essere risarcito dei danni sofferti, che possono essere di varia natura: danno biologico temporaneo e/o permanente, danno estetico, danno morale per le sofferenze causate dall’aggravamento della patologia a causa di una terapia errata, ed infine a tutti i danni patrimoniali che ne sono diretta conseguenza (ulteriori spese mediche, perdita della capacità lavorativa, ecc.).


2. I PROFILI DI RESPONSABILITA’ DEL MEDICO DENTISTA
Tra gli operatori sanitari rientra sicuramente la figura del dentista.
Il dentista esercita una professione intellettuale, per cui il contratto che lo lega al paziente può essere inquadrato nel novero delle prestazioni d’opera intellettuali da contatto sociale, con effetti protettivi a favore di terzo e con obbligazione di risultato.
Infatti, alla luce dei progressi della medicina e della scienza, oggi giorno il dentista non può limitarsi ad eseguire la prestazione richiesta limitandosi ad osservare i protocolli ed adottando le terapie correlate alla patologia che deve curare, ma è anche tenuto a raggiungere il risultato desiderato dal paziente: ragione per la quale, l’obbligazione cui è tenuto non può essere ricondotta nell’alveo delle obbligazioni di mezzi, bensì di risultato.
Il mancato raggiungimento del risultato a regola d’arte, fa sorgere in capo al paziente il diritto al risarcimento del danno sofferto. Trattandosi di un contratto tipico, il dentista andrà esente da responsabilità solo quando possa dimostrare che la causa dell’inadempimento dipende da un evento a lui non imputabile.
Il paziente, che lamenta un danno alla salute, è tenuto a provare l’esistenza del rapporto contrattuale col dentista e l’aggravamento della patologia, mentre spetterà al dentista di fornire la prova di avere eseguito la prestazione a regola d’arte e - semmai - che l’aggravamento della patologia dipende da fattori imprevisti o imprevedibili, ovvero da una causa a lui non imputabile.
Pur tuttavia, occorre anche ricordare che per costante giurisprudenza, anche in presenza di un inadempimento di natura contrattuale derivante da medical malpractice, il paziente è tenuto a fornire anche la prova del NESSO EZIOLOGICO oossia del NESSO DI CAUSALITA' tra il danno alla salute e l'operato del medico.
Vediamo di seguito come la giurisprudenza ha affrontato la responsabilità medica del dentista, come ne ha inquadrato la responsabilità professionale e come ha affrontato la ripartizione dell’onere della prova:

Ad esempio, “(…) deve essere accolta la domanda di risarcimento danni avanzata dal paziente di un dentista, accusato di non avere eseguito a regola d’arte taluni trattamenti odontoiatrici (…)”, Tribunale di Rimini, sent. 05/06/2015.

Secondo la Corte di Cassazione, “(…) opera in modo negligente - ed è fonte di risarcimento del danno - il medico dentista che non verifichi la reale situazione dei denti, anche sulla base delle cure pregresse sui quali effettua l’installazione di una protesi (…)”, Cass. Civ., sez. III, sent. 22/06/2015 n.12871.

Ed ancora: “(…) va dichiarata la responsabilità professionale del medico dentista, pur in presenza di una corretta esecuzione dell’intervento, ove poi consegua la negligenza manifestata dal dentista relativamente alla mancata somministrazione al paziente di un’adeguata terapia profilattica idonea ad evitare l’insorgenza e la diffusione del processo infettivo (…)Tribunale di Milano, sent. 12/01/2011.

Mentre, per quanto la distribuzione dell’onere probatorio in una causa di risarcimento danni, la giurisprudenza di merito afferma che: “(…) per il paziente è sufficiente la prova dell’esistenza di un contratto, presupposto che nella responsabilità medica assume connotazioni particolari: la scelta del medico di intervenire lo pongono nella stessa posizione di chi ha concluso un ordinario contratto di prestazione d’opera professionale in virtù di contatto sociale stabilito col paziente, anche nel caso in cui il sanitario abbia dolosamente taciuto la carenza di titolo abilitante l’esercizio della professione di dentista. Superata la prova da parte del paziente circa l’esistenza di detto contratto, ne consegue l’onere del medico di provare l’assenza di colpa, ossia di avere agito con l’adeguata diligenza e di avere eseguito la prestazione richiesta a regola d’arte (…)Tribunale di Roma, sez. XII, sent. 05/08/2004.

Infine, in tema di ciò che sopra abbiamo definito come una “obbligazione di risultato”, la giurisprudenza ha affermato che “(…) in tema di responsabilità del dentista, l’obbligazione assunta dal dentista va inquadrata quale obbligazione di risultato, poiché a differenza degli altri medici, al dentista non si chiede di prestare le cure sanitarie nel modo migliore, ma di conseguire un determinato risultato. Qualora il risultato non sia stato raggiunto, ne segue l’applicabilità del principio di diritto di cui all’art. 1460 c.c. relativo alla eccezione d’inadempimento (…)Corte d’appello di Genova, sez. I, sent. 18/07/2005.


3. CONCLUSIONI
Il medico dentista è a tutti gli effetti un prestatore d’opera intellettuale / professionale ed è gravato nei confronti del paziente di un’obbligazione di risultato, e non già solo di mezzi.
Non è sufficiente eseguire la prestazione richiesta con la dovuta diligenza, ma occorre conseguire il risultato desiderato.
Il contratto che lega il dentista al paziente è un contratto tipico di prestazione d’opera intellettuale / professionale derivante da “contatto sociale”.
Il medico dentista risponde di qualsiasi danno cagionato al paziente (danno patrimoniale e/o non patrimoniale) secondo le regole dettate per l’inadempimento contrattuale: altrimenti detto, il medico dentista che non esegue a regola d’arte la prestazione sanitaria dovuta risponde dell’inadempimento parziale o totale, a meno che non sia in grado di provare che l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile.
Il paziente convenuto a giudizio dal medico dentista per il pagamento del compenso professionale può, in caso di inadempimento parziale o totale, opporre al dentista l’eccezione d’inadempimento; ai fini del risarcimento del danno il paziente deve allegare il contratto e la prova dell’aggravamento della patologia, mentre spetta al dentista di provare che la causa dell’aggravamento della patologia dipende da un fatto imprevisto ed imprevedibile, ovvero da una causa a lui non imputabile.

(a cura di Avv. Luca Conti)


giovedì 28 novembre 2019

IL TUTORE, IL CURATORE E L'AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO






TUTORE, CURATORE E AMMINISTRATORE
DI SOSTEGNO

Il Titolo XII del Libro I del Codice Civile è dedicato alla protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia.
La capacità di agire, che si acquista col raggiungimento della maggiore età, si conserva di regola fino alla morte della persona; tuttavia può accadere che una persona sia impossibilitata in modo permanente o temporaneo a prendersi cura dei propri interessi, ad esempio a causa di una malattia che ne limita la capacità di agire.

Lo scopo del Titolo XI è, dunque, quello di proteggere la persona incapace in tutto o in parte di curare i propri interessi, attraverso l'istituzione di figure ad hoc quali il tutore, il curatore e l'amministratore di sostegno che assistono e talvolta si sostituiscono al soggetto tutelato nel compimento di atti di ordinaria e/o di straordinaria amministrazione. 

Se con l'istituzione dell'amministratore di sostegno il beneficiario della tutela non perde la capacità di agire ma viene solo affiancato da una persona che lo assiste nel compimento di determinati atti, con la figura del tutore e del curatore la capacità di agire del soggetto beneficiario viene di gran lunga compressa fino ad essere eliminata nel caso dell'interdizione: 

a) con l'istituzione del tutore il beneficiario perde completamente la capacità di agire e dunque la capacità di compiere autonomamente atti di ordinaria e di straordinaria amministrazione, in quanto ritenuto del tutto inidoneo a curare i propri interessi;

b) con l'istituzione del curatore il beneficiario non perde del tutto la capacità di agire, la conserva solo per il compimento di atti di ordinaria amministrazione, mentre per quelli di straordinaria amministrazione (ad esempio il compimento di atti che possono intaccarne l'assetto patrimoniale) sarà sostituito dal curatore.

Vediamo ora quali sono le norme che si occupano della procedura di interdizione / inabilitazione, e quali sono le persone che possono essere private del tutto o in parte della capacità di agire.


LA FUNZIONE DELL'INTERDIZIONE 
E DELL'INABILITAZIONE
(artt. 414 e 415 c.c.) 

L'art.414 c.c. dispone che possono essere interdetti il maggiore d'età ed il minore emancipato che a causa di un'abituale condizione di infermità mentale sono incapaci di provvedere ai propri interessi.
Per abituale infermità mentale s'intende non solo una patologia cronica mentale accompagnata da manifestazioni demenziali, ma anche uno stato di alterazione psicologica del soggetto inabile che ad un esame obiettivo non sia in grado di ricordare il proprio nome, di dare un valore al denaro e/o che non appaia orientato nello spazio e nel tempo.
Lo stato di abituale infermità mentale deve essere continua o prevalente, non necessariamente inguaribile: altrimenti detto può essere interdetta anche una persona che abbia sprazzi di lucidità accompagnata da uno stato di prevalente infermità mentale.
L'interdetto è, dunque, colui che con sentenza pronunciata dal tribunale viene dichiarato del tutto incapace di provvedere ai propri interessi e per l'effetto privato in toto della capacità di agire.

L'art. 415 c.c. dispone, invece, che possono essere inabilitati i soggetti di maggiore età, il cui stato di infermità mentale non è tanto grave da privarli del tutto della capacità di agire.
Ad esempio, possono essere inabilitate quelle persone che per via di una loro tenedenza alla prodigalità piuttosto che al gioco d'azzardo, piuttosto che all'abuso di alcol o di sostenze stupefacenti espongano se stessi ed i propri famigliari a gravi pregiudizi economici.
L'inabilitato, a differenza dell'interdetto, non perde del tutto la capacità di agire: la perde esclusivamente per il compimento di atti di straordinaria amministrazione. Al pari dell'interdizione, l'inabilitazione deve essere cagionata da una malattia mentale o fisica che presenti i caratteri dell'abitualità e della permanenza ma non la stessa gravità.
La norma individua piuttosto bene i soggetti che possono essere destinatari di una sentenza di inabilitazione: coloro che abitualmente spendono con leggerezza il proprio denaro senza comprenderne il valore, coloro che abusano di alcol e droghe, il cieco, il muto ed il sordo che non abbiano ricevuto un'adeguata educazione alla cura dei propri interessi. 

Ma quali sono i soggetti legittimati a proprorre ricorso al tribunale per l'interdizione o l'inabilitazione di un soggetto che presenti i requisiti di cui agli artt. 414 e 415 c.c.?


LA PROCEDURA DI INTERDIZIONE / INABILITAZIONE
Libro IV Titolo II Capo II c.p.c.
(art.712 e ss. c.p.c.)

A questa domanda risponde l'art. 417 c.c.: possono promuovere ricorso per l'interdizione o l'inabilitazione sia lo stesso beneficiario della protezione, sia il coniuge, il convivente more uxorio (ossia stabilmente convivente con l'interdicendo o l'inabilitando), i parenti entro il quarto grado, gli affini entro il secondo grado, il tutore o il curatore stessi ed il P.M. 

La domanda introduttiva si promuove con ricorso indirizzato al tribunale del luogo dove la persona beneficiaria della protezione ha la propria residenza ovvero il proprio domicilio prevalente (art.712 c.p.c.).
Nel ricorso devono essere esposti gli elementi di fatto e di diritto che giustificano la richiesta di interdizione o di inabilitazione (art. 712 comma II c.p.c.) nonché l'indicazione del coniuge, di tutti i parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo, del tutore e/o del curatore (se già esistenti).

Il presidente del tribunale ordina la comunicazione del ricorso al P.M. la cui partecipazione è obbligatoria (artt. 70 e 713 c.p.c.). Il ricorso ed il decreto di fissazione d'udienza devono essere comunicati al P.M.,  nonché notificato alla persona dell'interdicendo o dell'inabilitando ed a tutte le altre persone (parenti entro il quarto grado ed affini entro il secondo indicate nel ricorso) che possano fornire utili informazioni al pronunciamento della sentenza.

La fase istruttoria (a forma piuttosto libera e priva di particolari rigidità) è disciplinata dagli artt.714 e 715 c.p.c.: il giudice istruttore nominato dal Presidente del Tribunale con la partecipazione del P.M. sente in udienza la persona del ricorrente e di tutte le altre indicate nel ricorso potendo queste offrire utili elementi per la pronuncia richiesta; il giudice istruttore procede anche all'esame dell'interdicendo o dell'inabilitando, e se questi è impossibilitato a muoversi, giudice e P.M. si recano presso la sua dimora per sentirlo nel luogo dove si trova.

Nel corso della fase istruttoria può essere acquisito materiale probatorio (documentazione medica, cartelle cliniche, etc.) afferente alla patologia di cui soffre l'interdicendo o l'inabilitando e può anche essere disposta una C.T.U. medico legale per accertarne la patologia.
Ai sensi dell'art. 718 c.p.c. il procedimento (che rientra a pieno titolo tra quelli di volontaria giurisdizione) si conclude con una sentenza che accerta e dichiara lo stato di interdizione o di inabilitazione, e nomina il tutore ovvero il curatore. 
La sentenza di interdizione / inabilitazione che ha efficacia erga omnes dal momento della sua pubbliazione deve essere pubblicizzata ai sensi dell'art. 423 c.c.; sebbene sia suscettibile di passare in giudicato, lo diviene solo formalmente ma mai nella sostanza, dal momento che è pronunciata rebus sic stantibus, e pertanto risulta modificabile o revocabile in qualsiasi momento.

La sentenza che pronuncia sulla richiesta di interdizione, accerta e dichiara lo stato di abituale infermità mentale del soggetto tutelato, che viene dichiarato del tutto incapace di provvedere ai propri interessi, ragione per la quale viene nominato un tutore ossia un soggetto che ne cura e ne amministra il patrimonio, ne ha la rappresentanza legale e compie per lui atti di ordinaria e straordinaria amministrazione.

La sentenza che pronuncia sulla richiesta di inabilitazione, accerta e dichiara lo stato di abituale (ma non totale) infermità mentale del soggetto inabilitato, che viene dichiarato parzialmente incapace di provvedere ai propri interessi, ragione per la quale viene nominato un curatore ossia un soggetto che integra la volontà dell'inabilitato, il quale in quanto non privato del tutto della capacità di agire viene affiancato solo nel compimento di atti di straordinaria amministrazione.


L'AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO
(artt. 404 e ss. c.c.)

Dalla figura del tutore e del curatore si distingue quella dell’amministratore di sostegno disciplinata dagli artt. 404 e ss. c.c. ed introdotta nel nostro ordinamento dalla legge 09 gennaio 2004 n.6 .
Lo scopo dell'istituto del amministratore di sostegno è quello di proteggere ed assistere quelle persone che si trovino nella temporanea impossibilità di curare i propri interessi, ma che non versino in condizioni così gravi da essere interdetti o inabilitati.
Il soggetto beneficiario di questa protezione non perde la capacità di agire per quanto riguarda la quotidianità, ma viene affiancato da un amministratore che lo aiuta a curare i propri interessi economici.
Ad identificare correttamente la figura del amministratore di sostegno è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.13584/2006: amministratore di sostegno è colui che affianca nel compimento di certi atti patrimoniali il soggetto beneficiario di protezione che temporaneamente e/o parzialmente non sia in grado di provvedere alla cura dei propri interessi; trattandosi di un mero affiancamento la perdita della capacità di agire è minima.


LA PROCEDURA PER LA NOMINA DEL
AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO
(artt. 405, 406 e 407 c.c.)

 L'art.404 c.c. dispone che la persona, la quale per una menomazione fisica o mentale sia parzialmente e temporaneamente impossibilitata a prendersi cura dei propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno nominato dal giudice tutelare del luogo dove ha residenza o domicilio.

La norma chiarisce subito la distinzione dai diversi istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione: nel caso previsto dall'art. 404 c.c. il soggetto beneficiario di assistenza deve essere oggetto di una malattia nel corpo o nella mente ma non di tale gravità da pregiudicarne la capacità di agire in modo totale; trattasi infatti di una menomazione che gli impedisca di curare i propri interessi in modo temporaneo e parziale.
La competenza a conoscere il ricorso è il tribunale in persona del giudice tutelare del luogo dove il beneficiario risiede o ha il proprio domicilio.

Chi può promuovere la domanda per la nomina di un amministratore di sostegno? A questa domanda risponde l'art. 406 c.c.

L'art. 406 c.c. dispone che possono promuovere ricorso per la nomina di un amministratore di sostegno lo stesso beneficiario, ovvero il coniuge, il convivente more uxorio, i parenti entro il quarto grado, gli affini entro il secondo, il tutore, il curatore (se già nominati in precedenza) ed il P.M.

Se il ricorso si riferisce ad una persona che in precedenza era già stata interdetta o inabilitata, la domanda di nomina di un amministratore di sostegno deve essere accompagnata dalla richiesta di revoca della precedente interdizione / inabilitazione (art.405 comma III c.c.).
Il giudice investito del ricorso è - come detto - il giudice tutelare che deve provvedere sulla nomina entro 60 gg. dalla richiesta con decreto motivato: questa è un'altra peculiarità dell'istituto dell'amministrazione di sostegno, laddove il procedimento si esaurisce con un decreto anziché con una sentenza (art. 405 comma I c.c.).   
Nel ricorso devono essere indicati (art. 407 c.c.) le generalità della persona destinataria del provvedimento di sostegno, le motivazioni poste a fondamento della domanda, le generalità del coniuge (se esiste), dei discendenti, degli ascendenti, fratelli e sorelle del beneficiario, nonché di altri eventualmente conviventi.
Nel corso del procedimento il Giudice Tutelare sente personalmente il beneficiario e le altre persone indicate dall'art. 406 c.c.; assume ogni informazione utile ed idonea a decidere sul ricorso; nel corso del procedimento è obbligatorio l'intervento del P.M.

Esaurita la fase istruttoria, il giudice provvede sul ricorso con decreto, che lo stesso giudice potrà modificare o revocare ove ne vengano meno i presupposti che lo hanno giustificato (art. 413 c.c.). Il decreto di nomina dovrà indicare le generalità del beneficiario e le generalità dell'amministratore di sostegno, la durata dell'incarico (se a tempo determinato ovvero a tempo indeterminato), l'oggetto dell'incarico, gli atti che il soggetto amministrato dovrà compiere solo con l'assistenza dell'amministratore, ovvero gli atti che l'amministratore potrà compiere in nome e per conto del soggetto amministrato anche in sua assenza.

Resta, infine, da dire che il decreto non passa mai in giudicato ed è modificabile o revocabile in ogni momento; le stesse persone che hanno il potere di promuovere il ricorso introduttivo possono poi chiederne la modifica o la revoca, ovvero chiedere che la figura dell'amministratore sia sostituito da un curatore ovvero da un tutore.

(a cura di Avv. Luca Conti)