IL COMPENSO
DELL'AVVOCATO PER LA CONSULENZA E L'ASSISTENZA STRAGIUDIZIALE
Particolarmente dibattuta e spesso fonte di controversie tra avvocati e
clienti è la questione relativa al diritto al compenso maturato per l’attività
stragiudiziale, ossia quella che viene svolta nell’interesse della parte
assistita al di fuori di un contenzioso giudiziario, civile o penale.
Vediamo di fare un po’ di chiarezza.
Anzitutto, trattandosi di una prestazione d’opera intellettuale, il diritto
al compenso dovuto all’avvocato è regolato in primis dall’art.
2233 c.c., a tenore del quale “il compenso, se non è
convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli
usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione
professionale a cui il professionista appartiene. In ogni caso, la misura del
compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della
professione”.
Ne
segue che il primo criterio per determinare il compenso è l’accordo (se
precedentemente stipulato) tra avvocato e parte assistita, in assenza del quale
il giudice investito della relativa controversia dovrà fare riferimento ai
cosiddetti “parametri forensi” regolati dal D.M.
n.55/14 (oggi aggiornato al D.M. n.147 del 13/08/2022),
agli usi ed infine al parere dell’associazione professionale cui l’avvocato
appartiene.
Quanto alla prova del conferimento dell’incarico, erroneamente taluni
ritengono che l’omessa sottoscrizione del “contratto di mandato”
escluda il diritto al compenso.
Al contrario, la parte assistita è tenuta a pagare comunque all’avvocato il
compenso maturato per l’attività di assistenza e consulenza stragiudiziale,
anche quando questa non sia strettamente connessa a quella successiva
giudiziale, non essendo necessaria per la sua liquidazione la sottoscrizione di
un contratto ad hoc.
Ed infatti, mentre per la liquidazione del compenso maturato nella fase
giudiziale occorre il conferimento da parte del cliente della cosiddetta “procura alle liti”, per l’espletamento dell’attività
stragiudiziale il conferimento dell’incarico può essere dato in qualsiasi forma
idonea a manifestare la volontà della parte assistita di ricorrere all’attività
del professionista: addirittura per l’avvocato è ammessa la prova del
conferimento dell’incarico per mezzo di testimoni o ricorrendo a presunzioni
semplici.
Anche una semplice mail spedita dalla parte assistita all’avvocato può
costituire la prova documentale del conferimento dell’incarico.
In quest’ambito la giurisprudenza dei tribunali territoriali e della Corte
di Cassazione ha chiarito che “(…) il mandato professionale per l’espletamento di attività
professionale stragiudiziale non deve essere provato necessariamente con la
forma scritta ad substantiam ovvero ad probationem, potendo essere
conferito in qualsiasi forma idonea a manifestare il consenso delle parti e
potendo il giudice ammettere l’interessato a provare anche per testimoni sia il
contratto, sia il suo contenuto (…)” (Cass. Civ., Sez. I, sent. n.4705 dd. 25/02/2011;
Cass. Civ., Sez. VI, ord. n.3968/17 dd. 14/02/2017; Cass. Civ., Sez. I, ord.
n.29614 dd. 16/11/2018; Cass. Civ., Sez. VI, ord. n.3506 dd. 12/02/2020; Corte
d’Appello Roma, Sez. III, sent. n.1070 dd. 15/03/2011; Trib. di Trento, Sez. di
Cavalese, sent. n.7 dd. 05/02/2013).
Ed ancora: “(…) il rapporto di prestazione d’opera
professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del
diritto al compenso, postula l’avvenuto
conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare
inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e
della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto
compenso. In caso di contestazione del diritto al compenso, la
prova dell’avvenuto conferimento dell’incarico può essere data dall’attore con
ogni mezzo istruttorio, anche per presunzioni,
mentre compete al giudice di merito valutare se, nel caso concreto, questa
prova possa o meno ritenersi fornita (…)” (Corte d’Appello di Milano, Sez. II, sent. dd. 19/10/2017).
Ad
abundantiam: “(…) in tema di attività
professionale svolta da avvocati il mandato sostanziale costituisce un negozio
bilaterale (cosiddetto contratto di patrocinio) con il quale il professionista
viene incaricato, secondo lo schema negoziale che è proprio del mandato, di
svolgere la sua opera professionale in favore della parte. Ne consegue
che, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è
indispensabile il rilascio di una procura ad litem, essendo questa necessaria
solo per lo svolgimento dell’attività processuale, e che non è richiesta la
forma scritta, vigendo per il
mandato il principio di libertà di forma (…)” (Cass. Civ., Sez. II, dd. 16/06/2006, n.13963; Cass. Civ.,
Sez. II, dd. 18/07/2002, n.10454).
Altrettanto erroneamente taluni ritengono che l’omessa consegna alla parte
assistita del preventivo scritto costituisca un giustificato motivo per
escludere il diritto al compenso.
Anche qui bisogna fare chiarezza partendo dal dato normativo.
L’art.
27 comma 2 del Codice Deontologico Forense dispone
che “l’avvocato deve informare il cliente e la parte assistita sulla
prevedibile durata del processo e sugli oneri ipotizzabili; deve inoltre, se
richiesto, comunicare in forma scritta, a colui che conferisce l’incarico
professionale, il prevedibile costo della prestazione”.
Che cosa accade, allora, se il professionista non rilascia il preventivo al
cliente che gliene ha fatto richiesta?
Attualmente non esiste una norma chiara, di tipo sanzionatorio, che preveda
specifiche conseguenze se non viene rilasciato il preventivo precedentemente
richiesto; attualmente esistono due orientamenti in giurisprudenza che si
possono riassumere così:
a) un primo orientamento ritiene che l’assenza del preventivo determini la
nullità del contratto tra parte assistita e professionista, col conseguente
venir meno del diritto al compenso;
b) un secondo orientamento ritiene, invece, che l’assenza del preventivo
non incide sulla validità del contratto e sul diritto al compenso.
A parere di chi scrive, in assenza di una specifica norma sanzionatoria e
visto il tenore letterale dell’art. 27 comma 2 del C.d.F. sopra citato, anche
in assenza del preventivo il contratto tra professionista e parte assistita
resta valido, ragion per cui nel caso di una controversia la determinazione del
compenso dovrà avvenire da parte dell’Autorità Giudiziaria applicando i
parametri medi di cui al D.M. 55/14 e ss. mm.
Infine, quale strada deve percorrere l’avvocato per ottenere dall’Autorità
Giudiziaria la liquidazione del compenso maturato per l’attività stragiudiziale
e la condanna al pagamento a carico della parte assistita?
Per l’attività di assistenza e
consulenza stragiudiziale le
strade alternative sono due:
1) ricorso per
ingiunzione di pagamento in
presenza di un riconoscimento di debito della parte assistita ovvero previo
parere di congruità della parcella, espresso dal consiglio dell’ordine di
appartenenza dell’avvocato;
2) ricorso
secondo il nuovo rito semplificato (artt.
281 undecies e ss. c.p.c., Riforma Cartabia) indirizzato al
Giudice di Pace ovvero al Tribunale nel cui circondario risiede la parte
assistita (foro del consumatore), a seconda del valore di lite controverso.
Invece, Per l’attività giudiziale l’avvocato ha sempre due possibili strade alternative tra loro:
1) ricorso per
ingiunzione di pagamento in
presenza di un riconoscimento di debito della parte assistita ovvero previo
parere di congruità della parcella espresso dal consiglio dell’ordine di
appartenenza dell’avvocato;
2) ricorso
“speciale” disciplinato dagli artt. 3, 4 e 14 del D. Lgs. n.150/2011 da indirizzare all’ufficio giudiziario che per ultimo (in caso di più
gradi di giudizio) ha conosciuto la causa dalla quale la lite sul compenso trae
origine.
A tale ultimo riguardo, la Corte di
Cassazione (sent. n. 4485 del 2018 e n. 4247 del 2020) ha affermato
che in seguito all'introduzione dell'art. 14 del D.lgs. n.150/2011, le
controversie previste dall’art. 28 della Legge n.794/1942 e l'opposizione
proposta a norma dell'art. 645 c.p.c. contro il decreto ingiuntivo
inerente onorari, diritti o spese degli avvocati, sono regolate dal rito
sommario di cognizione di cui al citato decreto.
La competenza
appartiene all’ufficio giudiziario presso il quale l’avvocato ha svolto la
propria opera, salvo che prevalga il foro del consumatore.
Addirittura,
la Corte di Cassazione con la sent. n.8929 del 29/03/2023 ha affermato
che il Giudice di Pace, adito per il processo in cui l'avvocato ha prestato la
propria opera, è competente a decidere le controversie in materia di
liquidazione degli onorari previste dall’art. 28 della L. n. 794 del 1942,
secondo il rito di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 150 del 2011, in quanto la
riserva di collegialità non costituisce un tratto essenziale di questo
procedimento, come del resto conferma la scelta in favore del tribunale in
composizione monocratica, operata con il D.Lgs. n. 149/2022, che ha modificato
la formulazione dell’art. 14, secondo comma del D. lgs. n. 150/2011.
(a cura di
Avv. Luca Maria Conti)
Nessun commento:
Posta un commento