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martedì 18 giugno 2024

GUASTO ALL'IMPIANTO ELETTRICO DI CASA

 

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GUASTO ALL’IMPIANTO ELETTRICO DI CASA

CHI PAGA TRA INQUILINO E PROPRIETARIO?

 

Quando si verifica un guasto all’impianto elettrico di casa, chi deve pagare la riparazione tra l’inquilino e il proprietario di casa?

La risposta non è univoca e occorre distinguere caso per caso.

Partendo dal dato normativo, l’art. 1575 c.c. dispone che il locatore (il proprietario di casa) deve consegnare al conduttore (l’inquilino) l’appartamento in buono stato di manutenzione, deve mantenerlo in stato tale da servire all’uso convenuto e garantirne il pacifico godimento.

Da questa norma si può già offrire una prima risposta: se il malfunzionamento dell’impianto elettrico è preesistente al contratto di locazione, le relative spese sono esclusivamente a carico del proprietario, dal momento che è obbligo di quest’ultimo di mettere a disposizione dell’inquilino un appartamento in buono stato di manutenzione e in condizioni idonee ad essere utilizzato.

Inoltre, non possono essere imputate all’inquilino spese per riparazioni rispetto a danni che si sono verificati in dipendenza di un precedente rapporto locatizio.

Pertanto, prima di sottoscrivere il contratto, sarà buona regola che il conduttore verifichi anche il corretto funzionamento dell’impianto elettrico e, se del caso, segnalare subito e per iscritto (affinché ne resti traccia) al proprietario eventuali malfunzionamenti.

Allo stesso modo, se l’impianto elettrico non è a norma perché vetusto, le spese di adeguamento alla normativa vigente saranno ad esclusivo carico del proprietario.

A parte questi due casi pratici che possono verificarsi prima che si dia esecuzione al contratto di locazione, per il resto vale la regola generale dettata dagli artt. 1576 e 1609 c.c., stanti i quali il locatore (proprietario di casa) deve eseguire in corso di locazione tutte le riparazioni necessarie, ad eccezione della piccola manutenzione dovuta all’usura che resta in carico al conduttore (inquilino).

Ne segue che rientrano nella gestione ordinaria dell’immobile le piccole riparazioni (sostituzione dei punti luce, delle lampadine, delle pulsantiere, delle prese elettriche e dei segnalatori acustici) che sono conseguenza dell’usura e che per tale motivo sono a carico dell’inquilino, mentre gli interventi straordinari (sostituzione del quadro elettrico generale piuttosto che la sostituzione di tutto l’impianto elettrico di casa) spettano al proprietario.

A quest’ultimo riguardo si segnala la seguente sentenza: in tema di locazione di immobili, gli artt. 1576 e 1609 c.c. pongono a carico del conduttore l'obbligo di eseguire le riparazioni di piccola manutenzione; quelle relative agli impianti interni all'immobile (ad esempio elettrico, idrico, termico) per l'erogazione dei servizi indispensabili al suo godimento non rientrano, come tali, nelle riparazioni dette, restando a carico del locatore tutti gli interventi necessari per ricondurre l'immobile locato in buono stato locativo; in particolare la riparazione degli infissi esterni dell'immobile non rientra tra quelle di piccola manutenzione a carico del conduttore, perché i danni riportati dagli infissi, a meno che non siano dipendenti da uso anormale dell'immobile, debbono presumersi dovuti al caso fortuito o a vetustà e debbono essere, conseguentemente, riparati dal locatore” (Corte d’appello di Genova, Sez. I, sent. del 03/05/2021, n.453).

Va anche detto che in ossequio al principio di autonomica contrattuale (art. 1322 c.c.) le parti possono sempre estendere il contenuto delle disposizioni sopra elencate e quindi stabilire ex ante quali spese saranno in carico al conduttore e quali al locatore, ma sempre nel rispetto delle linee guida stabilite dalla normativa vigente: per esemplificare, sarebbe nulla la clausola contrattuale che, in deroga agli artt. 1575-1576-1609 c.c., ponesse ad esclusivo carico del conduttore tutte le spese di manutenzione dell’impianto elettrico comprese quelle di natura straordinaria.

Un altro caso pratico è la posa di una linea dedicata a grossi elettrodomestici che necessitano di sopportare un consumo ed un voltaggio molto elevati: si pensi all’installazione di una linea elettrica espressamente dedicata all’impianto di climatizzazione non presente nell’appartamento, questo intervento resta a carico del conduttore, salvo diversa pattuizione, perché non rientra tra gli obblighi che la legge impone al proprietario.

In caso di danni causati dal malfunzionamento dell’impianto elettrico, chi paga?

Anche in questo caso occorre distinguere caos per caso: se si tratta di danni conseguenti ad un difetto di manutenzione per l’usura (che resta in carico al conduttore), i relativi costi sono a carico dell’inquilino; mentre se si tratta di carenze strutturali dell’impianto elettrico (che invece restano a carico del locatore), sarà quest’ultimo a doversene fare carico.

A tale ultimo riguardo si segnala la seguente sentenza: “nell'ipotesi di danni patiti dal conduttore della cosa locata, il diritto al risarcimento sussiste su base contrattuale, e discende dall'art. 1581 c.c., che richiama l'art. 1578 c.c., e in particolare il suo secondo comma, in quanto il danno deriva da un vizio della cosa locata, giusto il principio di diritto già affermato da questa Corte, secondo cui appunto costituiscono vizi della cosa locata, agli effetti di cui all'art. 1578 c.c., quelli che incidono sulla struttura materiale della cosa, alterandone l'integrità in modo tale da impedirne o ridurne notevolmente il godimento secondo la destinazione contrattuale o legale” (Cass. civ., Sez. III, sent. del 20/02/2024, n.4578).

 

(a cura di Avv. Luca Conti)

venerdì 24 novembre 2023

CONSULENZA E ASSISTENZA STRAGIUDIZIALE: IL COMPENSO DELL'AVVOCATO

 





IL COMPENSO DELL'AVVOCATO PER LA CONSULENZA E L'ASSISTENZA STRAGIUDIZIALE

 

Particolarmente dibattuta e spesso fonte di controversie tra avvocati e clienti è la questione relativa al diritto al compenso maturato per l’attività stragiudiziale, ossia quella che viene svolta nell’interesse della parte assistita al di fuori di un contenzioso giudiziario, civile o penale.

Vediamo di fare un po’ di chiarezza.

Anzitutto, trattandosi di una prestazione d’opera intellettuale, il diritto al compenso dovuto all’avvocato è regolato in primis dall’art. 2233 c.c., a tenore del quale “il compenso, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell’associazione professionale a cui il professionista appartiene. In ogni caso, la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”.

Ne segue che il primo criterio per determinare il compenso è l’accordo (se precedentemente stipulato) tra avvocato e parte assistita, in assenza del quale il giudice investito della relativa controversia dovrà fare riferimento ai cosiddetti “parametri forensi” regolati dal D.M. n.55/14 (oggi aggiornato al D.M. n.147 del 13/08/2022), agli usi ed infine al parere dell’associazione professionale cui l’avvocato appartiene.

Quanto alla prova del conferimento dell’incarico, erroneamente taluni ritengono che l’omessa sottoscrizione del “contratto di mandato” escluda il diritto al compenso.

Al contrario, la parte assistita è tenuta a pagare comunque all’avvocato il compenso maturato per l’attività di assistenza e consulenza stragiudiziale, anche quando questa non sia strettamente connessa a quella successiva giudiziale, non essendo necessaria per la sua liquidazione la sottoscrizione di un contratto ad hoc.

Ed infatti, mentre per la liquidazione del compenso maturato nella fase giudiziale occorre il conferimento da parte del cliente della cosiddetta “procura alle liti”, per l’espletamento dell’attività stragiudiziale il conferimento dell’incarico può essere dato in qualsiasi forma idonea a manifestare la volontà della parte assistita di ricorrere all’attività del professionista: addirittura per l’avvocato è ammessa la prova del conferimento dell’incarico per mezzo di testimoni o ricorrendo a presunzioni semplici.

Anche una semplice mail spedita dalla parte assistita all’avvocato può costituire la prova documentale del conferimento dell’incarico.

In quest’ambito la giurisprudenza dei tribunali territoriali e della Corte di Cassazione ha chiarito che (…) il mandato professionale per l’espletamento di attività professionale stragiudiziale non deve essere provato necessariamente con la forma scritta ad substantiam ovvero ad probationem, potendo essere conferito in qualsiasi forma idonea a manifestare il consenso delle parti e potendo il giudice ammettere l’interessato a provare anche per testimoni sia il contratto, sia il suo contenuto (…) (Cass. Civ., Sez. I, sent. n.4705 dd. 25/02/2011; Cass. Civ., Sez. VI, ord. n.3968/17 dd. 14/02/2017; Cass. Civ., Sez. I, ord. n.29614 dd. 16/11/2018; Cass. Civ., Sez. VI, ord. n.3506 dd. 12/02/2020; Corte d’Appello Roma, Sez. III, sent. n.1070 dd. 15/03/2011; Trib. di Trento, Sez. di Cavalese, sent. n.7 dd. 05/02/2013).

Ed ancora: “(…) il rapporto di prestazione d’opera professionale, la cui esecuzione sia dedotta dal professionista come titolo del diritto al compenso, postula l’avvenuto conferimento del relativo incarico in qualsiasi forma idonea a manifestare inequivocabilmente la volontà di avvalersi della sua attività e della sua opera da parte del cliente convenuto per il pagamento di detto compenso. In caso di contestazione del diritto al compenso, la prova dell’avvenuto conferimento dell’incarico può essere data dall’attore con ogni mezzo istruttorio, anche per presunzioni, mentre compete al giudice di merito valutare se, nel caso concreto, questa prova possa o meno ritenersi fornita (…)” (Corte d’Appello di Milano, Sez. II, sent. dd. 19/10/2017).

Ad abundantiam: “(…) in tema di attività professionale svolta da avvocati il mandato sostanziale costituisce un negozio bilaterale (cosiddetto contratto di patrocinio) con il quale il professionista viene incaricato, secondo lo schema negoziale che è proprio del mandato, di svolgere la sua opera professionale in favore della parte. Ne consegue che, ai fini della conclusione del contratto di patrocinio, non è indispensabile il rilascio di una procura ad litem, essendo questa necessaria solo per lo svolgimento dell’attività processuale, e che non è richiesta la forma scritta, vigendo per il mandato il principio di libertà di forma (…) (Cass. Civ., Sez. II, dd. 16/06/2006, n.13963; Cass. Civ., Sez. II, dd. 18/07/2002, n.10454).

Altrettanto erroneamente taluni ritengono che l’omessa consegna alla parte assistita del preventivo scritto costituisca un giustificato motivo per escludere il diritto al compenso.

Anche qui bisogna fare chiarezza partendo dal dato normativo.

L’art. 27 comma 2 del Codice Deontologico Forense dispone che “l’avvocato deve informare il cliente e la parte assistita sulla prevedibile durata del processo e sugli oneri ipotizzabili; deve inoltre, se richiesto, comunicare in forma scritta, a colui che conferisce l’incarico professionale, il prevedibile costo della prestazione”.

Che cosa accade, allora, se il professionista non rilascia il preventivo al cliente che gliene ha fatto richiesta?

Attualmente non esiste una norma chiara, di tipo sanzionatorio, che preveda specifiche conseguenze se non viene rilasciato il preventivo precedentemente richiesto; attualmente esistono due orientamenti in giurisprudenza che si possono riassumere così:

a) un primo orientamento ritiene che l’assenza del preventivo determini la nullità del contratto tra parte assistita e professionista, col conseguente venir meno del diritto al compenso;

b) un secondo orientamento ritiene, invece, che l’assenza del preventivo non incide sulla validità del contratto e sul diritto al compenso.

A parere di chi scrive, in assenza di una specifica norma sanzionatoria e visto il tenore letterale dell’art. 27 comma 2 del C.d.F. sopra citato, anche in assenza del preventivo il contratto tra professionista e parte assistita resta valido, ragion per cui nel caso di una controversia la determinazione del compenso dovrà avvenire da parte dell’Autorità Giudiziaria applicando i parametri medi di cui al D.M. 55/14 e ss. mm.

Infine, quale strada deve percorrere l’avvocato per ottenere dall’Autorità Giudiziaria la liquidazione del compenso maturato per l’attività stragiudiziale e la condanna al pagamento a carico della parte assistita?

Per l’attività di assistenza e consulenza stragiudiziale le strade alternative sono due:

1)     ricorso per ingiunzione di pagamento in presenza di un riconoscimento di debito della parte assistita ovvero previo parere di congruità della parcella, espresso dal consiglio dell’ordine di appartenenza dell’avvocato;

2)     ricorso secondo il nuovo rito semplificato (artt. 281 undecies e ss. c.p.c., Riforma Cartabia) indirizzato al Giudice di Pace ovvero al Tribunale nel cui circondario risiede la parte assistita (foro del consumatore), a seconda del valore di lite controverso.

Invece, Per l’attività giudiziale l’avvocato ha sempre due possibili strade alternative tra loro:

1)     ricorso per ingiunzione di pagamento in presenza di un riconoscimento di debito della parte assistita ovvero previo parere di congruità della parcella espresso dal consiglio dell’ordine di appartenenza dell’avvocato;

2)      ricorso “speciale” disciplinato dagli artt. 3, 4 e 14 del D. Lgs. n.150/2011 da indirizzare all’ufficio giudiziario che per ultimo (in caso di più gradi di giudizio) ha conosciuto la causa dalla quale la lite sul compenso trae origine.

A tale ultimo riguardo, la Corte di Cassazione (sent. n. 4485 del 2018 e n. 4247 del 2020) ha affermato che in seguito all'introduzione dell'art. 14 del D.lgs. n.150/2011, le controversie previste dall’art. 28 della Legge n.794/1942 e l'opposizione proposta a norma dell'art. 645 c.p.c. contro il decreto ingiuntivo inerente onorari, diritti o spese degli avvocati, sono regolate dal rito sommario di cognizione di cui al citato decreto.

La competenza appartiene all’ufficio giudiziario presso il quale l’avvocato ha svolto la propria opera, salvo che prevalga il foro del consumatore.

Addirittura, la Corte di Cassazione con la sent. n.8929 del 29/03/2023 ha affermato che il Giudice di Pace, adito per il processo in cui l'avvocato ha prestato la propria opera, è competente a decidere le controversie in materia di liquidazione degli onorari previste dall’art. 28 della L. n. 794 del 1942, secondo il rito di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 150 del 2011, in quanto la riserva di collegialità non costituisce un tratto essenziale di questo procedimento, come del resto conferma la scelta in favore del tribunale in composizione monocratica, operata con il D.Lgs. n. 149/2022, che ha modificato la formulazione dell’art. 14, secondo comma del D. lgs. n. 150/2011.

 

(a cura di Avv. Luca Maria Conti)


martedì 29 dicembre 2020

CONDOMINIO: LE DELIBERE ASSEMBLEARI NULLE

 





CONDOMINIO

LE DELIBERE ASSEMBLEARI NULLE

 

 

 

All’annullamento delle delibere assembleari provvede l’art. 1137 c.c., secondo il quale contro le delibere assembleari che violano la legge o il regolamento di condominio può essere promossa impugnazione dal condomino assente, da quello presente ma dissenziente, oppure ancora da quello presente ed astenuto.

 

Il termine per impugnare la delibera assembleare è di 30 gg. nei casi “delibera annullabile”, mentre è imprescrittibile (e dunque può essere proposto in ogni tempo) l’impugnazione delle “delibere nulle”.

 

Il termine di 30 gg. per l’impugnazione delle delibere annullabili decorre per i condomini presenti in assemblea dal giorno stesso in cui l’assemblea si è tenuta, mentre per gli assenti decorre dal giorno in cui la delibera gli è stata comunicata, momento che di regola coincide con la consegna da parte dell’amministratore del verbale d’assemblea tramite lettera raccomandata, tramite p.e.c. oppure tramite plico depositato in portineria.

 

Ma come distinguere tra delibere “nulle” e delibere “annullabili”?

 

In linea di massima sono sicuramente “nulle” le delibere che perseguono un oggetto illecito o impossibile, oppure che violano norme imperative esorbitando i poteri dell’assemblea siccome individuati dall’art. 1135 c.c.

 

Viceversa sono considerate “annullabili” quelle delibere che, pur violando la legge o il regolamento di condominio, sono state adottate in materie su cui l’assemblea era legittimata ad esprimere il proprio voto.

 

Vediamo di seguito alcuni casi pratici di NULLITA’, ossia di delibere che il condomino assente oppure presente ma dissenziente (o astenuto) può impugnare in qualsiasi tempo, senza incorrere in alcuna decadenza.

 

 

Cass. civ. Sez. VI - 2 Ord., 08/06/2020, n. 10845

E' nulla la delibera dell'assemblea di condominio che ratifichi una spesa assolutamente priva di inerenza alla gestione condominiale, come, ad esempio, quella che concerne la manutenzione di beni di proprietà esclusiva dei singoli condomini, quali ad esempio i balconi, che appartengono al proprietario dell’appartamento cui ineriscono e non al condominio.

 

Cass. civ. Sez. II, 30/08/2019, n. 21909

E’ nulla la delibera dell'assemblea che approva l'installazione dell'ascensore che non raggiunga l'ultimo piano, in quanto gli impedisce un uso pieno di una parte comune ed incide anche sul valore della sua proprietà esclusiva.

 

 

Cass. civ. Sez. II, 13/06/2019, n. 15932

E' nulla la delibera assembleare che addebita le spese di riscaldamento ai condomini proprietari di locali, che non sono serviti dall'impianto di riscaldamento centralizzato.

 

Cass. civ. Sez. II, 16/04/2019, n. 10586

E’ nulla, anche se assunta all'unanimità dei condomini, la delibera che modifichi il criterio legale di ripartizione delle spese stabilito dall'art. 1126 c.c., senza che i condomini abbiano manifestato l'espressa volontà di stipulare un negozio dispositivo dei loro diritti in tal senso, mentre la delibera che – invece - ha ripartito le spese in modo errato è solo annullabile.

 

Cass. civ. Sez. II Sent., 31/08/2017, n. 20612 (rv. 645238-02)

E’ nulla la delibera condominiale che accerti, a maggioranza e non all’unanimità, l'ambito dei beni comuni e l'estensione delle proprietà esclusive in deroga all'articolo 1117 c.c., perché inidonea a comportare l'acquisto a titolo derivativo di tali diritti, occorrendo al contrario l'accordo di tutti i comproprietari espresso in forma scritta.

 

Cass. civ. Sez. II Sent., 04/08/2017, n. 19651 (rv. 645851-01)

E’ nulla la delibera condominiale che, adottata a maggioranza ed in deroga al criterio legale di ripartizione delle spese (criterio basato sul consumo effettivo oppure sulle tabelle millesimali), ripartisca in parti uguali quelle di esercizio dell'impianto di riscaldamento centralizzato per impossibilità dell'oggetto, giacché tale statuizione eccede le attribuzioni dell'assemblea e pertanto richiede, per la propria approvazione, l'accordo unanime di tutti i condomini, quale espressione della loro autonomia negoziale.



Cass. civ. Sez. II, 23/03/2016, n. 5814

È nulla, anche se assunta all'unanimità dei presenti votanti, la delibera dell'assemblea condominiale che modifichi il criterio legale di ripartizione delle spese di riparazione del lastrico solare come stabilito dall'art. 1226 c.c., in assenza di espressa manifestazione, da parte dei condomini, della volontà di stipulare un negozio dispositivo dei loro diritti in tal senso.

 

Cass. civ. Sez. II, 09/10/2014, n. 21343

Va ritenuta nulla la delibera condominiale che, ancorché approvata all'unanimità, ponga a carico del condominio le spese di rifacimento dei balconi, che costituiscono opere di natura individuale e non comuni.

 

 

Cass. civ. Sez. II Sent., 30/04/2013, n. 10196

È nulla la delibera dell'assemblea di condominio adottata a maggioranza dei presenti, che stabilisca il tasso degli interessi moratori a carico dei condomini in caso di omesso o ritardato pagamento degli oneri condominiali, potendo una siffatta disposizione essere inserita soltanto in un regolamento condominiale di natura contrattuale, approvato all'unanimità e non a maggioranza.

 

 

Cass. civ. Sez. II, 24/07/2012, n. 12930

E’ nulla la delibera assembleare di installazione dell'impianto di ascensore, approvata ed adottata nell'interesse comune, allorché essa implichi la violazione dei diritti anche di un solo condomino sulle parti di sua esclusiva proprietà.


Cass. civ. Sez. II Sent., 24/07/2012, n. 12930 (rv. 623476)

E’ nulla la delibera assembleare, la quale ancorché adottata con la maggioranza prevista dalla legge in materia di “superamento delle barriere architettoniche all’interno di edifici privati” (nella specie, l'installazione di un impianto di ascensore nell'interesse comune), sia lesiva dei diritti di un condomino sulle parti di sua proprietà esclusiva, in quanto vietata dall’art. 1120 c.c.

 

Cass. civ. Sez. VI, 03/04/2012, n. 5331

E’ nulla, per violazione del diritto individuale del singolo condomino sulle parti comuni dell’edificio, la delibera assembleare che vieti al predetto condomino di rinunziare all'uso del riscaldamento centralizzato e di distaccare le diramazioni della sua unità immobiliare dall'impianto termico comune, fermo il suo obbligo di pagamento delle spese per la conservazione dell'impianto.

 

Cass. civ. Sez. II Sent., 10/08/2009, n. 18192 (rv. 609155)

E’ nulla la delibera dell'assemblea di condominio che ratifichi una spesa assolutamente priva di inerenza alla gestione condominiale, senza che possa aver rilievo in senso contrario il fatto che la spesa sia modesta in rapporto all'elevato numero di condomini e all'entità complessiva del rendiconto.

 

Cass. civ. Sez. II, 25/01/2007, n. 1626 (rv. 595735)

E’ nulla, per impossibilità dell'oggetto, la delibera condominiale che pregiudichi la sicurezza del fabbricato mediante la copertura di spazi comuni aventi la destinazione di areare le unità immobiliari dei singoli condomini che su di esso prospettano, senza l'adozione di misure sostitutive atte ad assicurare un ricambio d'aria adeguato alle necessità anche potenziali di dette unità.

 

Cass. civ. Sez. II, 17/07/2006, n. 16228 (rv. 591439)

Poiché il diritto di ciascun condomino sulle parti di proprietà comune può trovare limitazioni soltanto in forza del titolo di acquisto o di convenzioni, la delibera assembleare che, nel destinare un'area comune a parcheggio di autovetture, ne disciplini l'uso escludendo uno dei condomini, è nulla se il relativo verbale non è sottoscritto da tutti i condomini, atteso che la relativa determinazione, modificando il regolamento condominiale, produce vincoli di natura reale su beni immobili ed è, pertanto, soggetta all'onere della forma scritta "ad substantiam".

 

Cass. civ. Sez. III, 24/05/2004, n. 9981

E’ nulla la delibera condominiale che persegua un determinato scopo nell'interesse comune o per adempiere a un obbligo di legge ma in violazione del diritto di proprietà esclusivo del singolo condomino.

 

Cass. civ. Sez. II, 06/12/2001, n. 15476

La clausola del regolamento consortile che preveda la partecipazione all'assemblea del super-condominio non già dei singoli condomini, ma dei delegati designati per ciascun esercizio dall'assemblea di ciascun condominio facente parte del complesso, è nulla, ai sensi del combinato disposto degli art. 1138, ultimo comma, e 1136 c.c., con conseguente nullità delle delibere adottate dall'assemblea consortile in tal modo costituita.

 

Cass. civ. Sez. II, 22/12/1999, n. 14461

E' nulla la delibera condominiale se la convocazione non indica il luogo di riunione ed esso è assolutamente incerto per la legittima aspettativa dei medesimi di un luogo diverso dal solito stante l'assoluta inidoneità di quest'ultimo. Infatti, in mancanza di indicazione nel regolamento condominiale della sede per le riunioni assembleari, l'amministratore ha il potere di scegliere quella più opportuna, ma con il duplice limite che essa sia nei confini della città ove è ubicato l'edificio e che il luogo sia idoneo, fisicamente e moralmente, a consentire a tutti i condomini di esser presenti e di partecipare ordinatamente alla discussione.

 

 

 

(a cura di Avv. Luca Conti)