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martedì 12 luglio 2016

LA RILEVANZA DEL PATTEGGIAMENTO NEL PROCESSO CIVILE









LA RILEVANZA DELLA SENTENZA DI APPLICAZIONE DELLA PENA SU RICHIESTA DELLE PARTI (PATTEGGIAMENTO) NEL PROCESSO CIVILE PER DANNI




Un problema particolarmente dibattuto negli anni trascorsi ed oggi apparentemente superato (ma non del tutto) è quello della rilevanza del “patteggiamento” nel processo civile: altrimenti detto, quale valore o rilevanza si deve conferire alla “applicazione della pena richiesta dalle parti” nel giudizio civile di danno?
Come noto il combinato disposto degli artt. 2043 c.c. e 185 c.p. stabilisce che qualsiasi fatto illecito costituente reato obbliga al risarcimento del danno chi l’ha cagionato in favore della parte offesa.
Certuni sostengono - erroneamente - che il rimedio premiale del patteggiamento, non essendo equiparabile ad una sentenza penale di condanna resa all’esito di un’istruttoria dibattimentale e non contenendo un’ammissione esplicita di responsabilità dell’imputato in ordine al “fatto-reato” ascrittogli, non avrebbe alcun rilievo sotto il profilo probatorio nel conseguente giudizio civile di danno.
E’ noto, infatti, che ove l’imputato benefici dell’applicazione della pena concordata col P.M. (art.444 c.p.p.), il Giudice (GUP) non può decidere sulla richiesta di danno promossa dalla parte offesa dal reato (la cd. parte civile), che pertanto si vede costretta a rivolgersi al giudice civile per vedersi riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale e/o patrimoniale che ha sofferto.
A questo punto, come si deve comportare il giudice civile rispetto alla sentenza di patteggiamento che il danneggiato ed attore nel processo civile chiede di allegare come elemento di prova della responsabilità del convenuto a giudizio?
Chi sostiene che il patteggiamento non abbia alcun rilievo nel giudizio civile di danno sbaglia e l’errore trae spesso origine da un’erronea interpretazione dell’istituto del patteggiamento, basata sul fatto che la sentenza di applicazione della pena su richiesta non fa stato nel processo civile.
Ora, se per un verso è vero che il patteggiamento non fa stato nel giudizio civile di danno, è altrettanto che vero che allo stesso non può affibbiarsi la sola paternità di rimedio giuridico dal carattere premiale (corrispondente alla diminuzione della pena fino ad 1/3) collegato al contenimento delle spese processuali ed all’aggiramento delle lungaggini processuali connesse all’istruttoria dibattimentale. Anche perché chi patteggia, rinuncia al diritto di potersi difendere in giudizio accettando le risultanze probatorie emerse nel corso delle indagni penali.
Per altro verso, secondo un orientamento ormai consolidato della Giurisprudenza di legittimità il patteggiamento implica pur sempre “un riconoscimento da parte dell’imputato del fatto-reato narrato dal denunciante
Qual è dunque l’efficacia che il giudice civile deve conferire alla sentenza di patteggiamento, con cui con cui l’imputato (poi convenuto nel processo civile) ha definito il processo penale?
In vero, il patteggiamento contiene un implicito accertamento del “fatto-reato” contestato all’imputato, una sorta di cristallizzazione dei fatti narrati dalla parte offesa nella denuncia introduttiva, a partire dai quali il giudice civile ha il dovere di esperire le prove richieste dalle parti, da porre successivamente a fondamento della propria decisione.
In proposito, si richiama l’orientamento della Corte di Cassazione di cui alle sentenze n.9546/2013 e 17289/2006 a tenore delle quali: la sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce per il giudice civile un importante elemento di prova (…) pertanto la sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come una sentenza di condanna, presupponendo pur sempre un’ammissione di colpa, esonera la controparte dall’onere della prova (ex multis si vedano anche Corte d’Appello di Milano, II sezione civile, dd. 23/0/2015, n.2665; Corte d’Appello di Milano, II sezione civile, dd. 19/03/2014, n.1121).
D particolare pregio è una recente pronuncia della Corte d'Appello di Milano (sentenza n.1121 del 19/03/2014): con la sentenza n. 336 del 18 dicembre 2009 la Corte Costituzionale ha affermato che la circostanza che l'imputato, nello stipulare l'accordo sul rito e sul merito della regiudicanda penale, accetti una determinata condanna chiedendone o consentendone l'applicazione, sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto a quei fini di non contestare il fatto e la propria responsabilità (…) quanto alla valenza probatoria della sentenza di patteggiamento nel giudizio civile, secondo costante giurisprudenza di legittimità la sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce elemento di prova per il Giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato abbia ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Detto riconoscimento, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato dunque come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile.
In definitiva, si può ragionevolmente concludere che il patteggiamento o sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti costituisce un elemento di prova che va oltre il mero indizio e che il giudice civile ha il dovere di considerare quando è chiamato a decidere sulla richiesta di danno promossa dalla parte offesa dal reato, sia rapportandolo con le prove orali richieste dalle parti sia potendosene al limite anche discostare motivatamente, allorché le prove orali e/o tecniche esperite nel giudizio civile portino ad evidenze differenti rispetto a quanto emerso nel corso delle indagini penali.


(a cura di Avv. Luca Conti del foro di Trento).

 

martedì 22 marzo 2016

LA TUTELA DEL CONSUMATORE NEL CONTRATTO D'INCARICO PROFESSIONALE PREDISPOSTO DALL'AVVOCATO








LA TUTELA DEL CONSUMATORE NEL CONTRATTO D'INCARICO PROFESSIONALE PREDISPOSTO DALL'AVVOCATO
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DETERMINAZIONE DEL COMPENSO E DIVIETO DI RITENZIONE DELL'ACCONTO VERSATO IN CASO DI REVOCA DEL MANDATO

(Tribunale di Milano, V sez., Sent. n.3571/16 del 18/03/2016)


Tra le tante novità apportate dalla riforma forense al rapporto tra parte assistita ed avvocato c'è anche l'obbligatorietà, posta a carico del professionista, di far sottoscrivere al cliente il contratto per il conferimento dell'incarico professionale, che insieme al preventivo (obbligatorio solo se richiesto espressamente dal cliente) è divenuto condicio sine qua non per verdersi riconosciuto il diritto al compenso in relazione all'attività svolta.
Nella redazione del contratto la "parte forte" è senza dubbio il predisponente e dunque l'avvocato, mentre la "parte debole" è rappresentata dalla parte assistita.
Non vi è dubbio che, quando la parte assistita è una persona fisica che agisce per la tutela dei propri diritti al di fuori della propria attività professionale o imprenditoriale, il contratto è assoggettato (anche) al Codice del Consumo, ossia dal Dec. Lgs. 206/2005.
E' noto che, nella determinazione del compenso dovuto all'avvocato, il primo paramentro di riferimento è rappresentato dall'eventuale accordo raggiunto tra professionista e parte assisitta, in difetto del quale il Giudice può fare ricorso al tariffario vigente ed agli usi, avuto riguardo del pregio dell'attività svolta (art. 2233 c.c.).
Alla luce di quanto appena esposto si pone il seguente problema: l'accordo sulla determinazione del compenso raggiunto con la parte assistita in sede di conferimento dell'incarico è sempre valido e vincolante per il Giudice, oppure in certi casi può essere derogato?
A questa domanda ha risposto la V Sezione Civile del Tribunale di Milano con la Sent. n.3571/16 del 18/03/2016 che in una controversia tra avvocato e parte assistita (avente ad oggetto la determinazione del compenso dovuto al professionista e la richiesta di restituzione dell'acconto versato per recesso anticipato da parte del cliente) ha ritenuto applicabile il Codice del Consumo e vessatoria la clausola posta nel contratto, la quale consentiva (illegittimanente) al predisponente (parte forte del contratto) di ritenere per intero il fondo spese messogli a disposizione dal cliente, ove quest'ultimo avesse esercitato il diritto di recesso ad incarico non ancora ultimato o non ancora eseguito.
La vexata quaestio già posta all'attenzione del Giudice di Pace di Milano (Sent. n.1698/14 del 11/02/2014) e decisa in favore del consumatore veniva riproposta in sede d'appello all'attenzione del Tribunale di Milano: l'avvocato (parte appellante) aveva promosso appello avverso la sentenza pronunciata dal Giudice di Pace di Milano, che lo aveva condannato a restituire al cliente parte del fondo spese messogli a disposizione ad inizio mandato, nonostante che nel contratto sottoscritto dalle parti ci fosse una clausola che inibiva alla parte assistita di chiedere la restituzione dell'acconto sulle spese legali, allorché avesse esercitato anticipatamente il diritto di recesso.
L'appellante aveva censurato la sentenza di primo grado per violazione dell'art. 2233 c.c. ritenendo vincolante per il Giudice l'accordo raggiunto dalle parti per la determinazione del compenso.
Tanto nel giudizio di prime cure quanto in grado d'appello il cliente (parte appellata), che in primo grado aveva chiesto ed ottenuto la restituzione dell'acconto versato per effetto del recesso anticipato in forza della revoca dell'incarico professionale, aveva invocato la vessatorietà della clausola apposta nel contratto di mandato professionale sia per difetto di sottoscrizione a margine della stessa, sia per violazione degli artt. 33 e ss. Dec. Lgs. n. 206/2005.
In particolare, nella clausola de qua si stabiliva che il fondo spese richiesto ed eventualmente corrisposto al professionista all'atto del conferimento dell'incarico fosse da intendersi quale compenso minimo anche nel caso in cui fosse cessato l’incarico professionale, con la conseguenza che la parte assistita non avrebbe potutto chiederne la restituzione neanche parziale. Un pari obbligo, tuttavia, non era stato previsto in favore della parte assistita, ove a recedere anticipatamente fosse stato il professionista.
Ma posto che nel caso di specie si verte in un contratto stipulato tra consumatore e professionista e pertanto soggetto anche al Codice del Consumo, la clausola risultava all’evidenza vessatoria ed inopponibile alla parte assistita, perché imponeva a quest'ultima, che contrattualmente risulta anche la più debole, di non poter esercitare liberamente il diritto di revocare l’incarico, posto che in caso contrario non avrebbe potuto chiedere la restituzione di quanto già pagato in acconto all’atto del conferimento dell’incarico sulle competenze professionali ancora da maturare.
Infatti, nel predisporre detta clausola l'avvocato aveva violato gli artt. 33 e ss. del D. Lgs. n.206/2005, in quanto - non prevedendo lo stesso genere di penale a carico del predisponente - aveva determinato un evidente squilibrio dei diritti e degli obblighi nascenti dal contratto a carico ed in danno del solo cliente.
L’art.33 comma I del D. Lgs. 206/2005 dispone che nel contratto concluso tra consumatore e professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.
Prosegue poi l’art.33 comma II lett. e) che si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che hanno l’effetto di consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se quest'ultimo non conclude il contratto o recede da esso, senza prevedere il diritto del consumatore di esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest'ultimo a non concludere il contratto oppure a recedere (…), mentre la successiva lett. g) afferma che si presumono vessatorie fino a prova contraria le clausole che consentono al professionista di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per prestazioni non ancora adempiute.
L’art.36 del D. Lgs. n.206/2005 dispone infine che le clausole considerate vessatorie ai sensi degli articoli 33 e 34 sono nulle mentre il contratto rimane valido per il resto.
Stante quanto sopra, il caso posto all’esame del Tribunale di Milano è perfettamente aderente a quanto vietato dal Codice del Consumo a protezione del consumatore contro le clausole vessatorie.
Altrimenti detto: il contratto tra professionista e parte assistita era perfettamente valido ad eccezione della clausola sulla determinazione del compenso, che risultava inopponibile alla parte assistita e che obbligava il Giudice a determinare il compenso maturato sulla base del tariffario vigente avuto riguardo dell'attività effettivamente svolta e documentata.
Si richiama di seguito l’orientamento fatto proprio dala giurisprudenza di merito e di legittimità a proposito delle clausole vessatorie predisposte dal professionista in danno del consumatore: in tema di clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore, la previsione dell'art. 33 comma II lett. e del Dec. Lgs. 6 settembre 2005 n.206 - diretta a sanzionare la lesione inferta all'equilibrio negoziale che si concretizza nel trattenimento di una somma di denaro ricevuta prima dell'esecuzione delle prestazioni contrattuali, qualora non si ponga a carico dell' "accipiens" un obbligo restitutorio e un ulteriore obbligo sanzionatorio qualora sia egli stesso a non concludere o a recedere - è applicabile in presenza non solo di un contratto già concluso ed impegnativo per entrambi i contraenti, ma anche di un negozio preparatorio vincolante per il consumatore, quale quello discendente da una proposta irrevocabile, tutte le volte che il consumatore stesso - nel versare, contestualmente all'impegno assunto, una somma di denaro destinata ad essere incamerata dal beneficiario in caso di mancata sottoscrizione del successivo preliminare "chiuso" o del definitivo da parte del proponente - abbia aderito ad un testo, contenente la detta clausola vessatoria, predisposto o, comunque, utilizzato dal professionista oblato; inoltre, è abusiva la clausola con la quale il consumatore si assume l'obbligo di corrispondere comunque l'intero importo pattuito, poiché sanzionando indiscriminatamente il recesso indipendentemente da un giustificato motivo riserva al professionista un trattamento differenziato e migliore; ed ancora in tema di contratto del consumatore, il carattere abusivo di clausole predisposte dal professionista deve essere valutato alla luce sia del principio generale in base al quale tali debbono intendersi le clausole che determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto ai sensi dell'art. 1469 bis del codice civile ed ora art. 33 del Decreto Legislativo del 6 settembre 2005 n. 206, sia di talune fattispecie tipizzate come quella afferente la rinuncia alla facoltà di recesso del consumatore assumendo, per contro, l'obbligo di corrispondere comunque l'intero importo pattuito. Ne consegue l'inefficacia di suddette clausole. (ex multis si vedano Cass. Civ., II Sez., dd. 30/04/2012 n.6639; Cass. civ., Sez. III, dd. 17/03/2010, n.6481; si vedano altresì pronunce analoghe della giurisprudenza di merito Trib. di Trento dd. 01/10/2015 n.880; Trib. Arezzo dd. 17/02/2012 n. 125; Trib. Modena dd. 16/01/2012 n. 93).
Alla luce dell'orientamento appena richiamato, la V Sezione civile del Tribunale di Milano ha rigettato l'appello promosso dall'avvocato per supposta violazione dell'art. 2233 c.c. da parte del Giudice di prime cure ed ha confermato la sentenza di primo grado che aveva condannato il professionista a restituire al cliente l'acconto già versato detratto quanto maturato in relazione all'attività svolta, stante la vessatorietà della clausola sulla determinazione del compenso predisposta dall'avvocato in danno del consumatore per violazione degli artt.33 e ss. D. Lgs. 206/2005.

(a cura di Avv. Luca Conti del Foro di Trento)


venerdì 12 febbraio 2016

REVOCA DEL D.I. DI PAGAMENTO PER INCOMPETENZA DEL GIUDICE EMITTENTE








REVOCA DEL DECRETO INGIUNTIVO DI PAGAMENTO PER EFFETTO DELLA DECLARATORIA D'INCOMPETENZA TERRITORIALE DEL GIUDICE EMITTENTE


L'Art.637 c.p.c. dispone che per l'ingiunzione è competente il giudice di pace o, in composizione monocratica, il tribunale che sarebbe competente per la domanda proposta in via ordinaria (...) gli avvocati o i notai possono altresì proporre la domanda d'ingiunzione contro i propri clienti al giudice competente per valore del luogo ove ha sede il consiglio dell'ordine al cui albo sono iscritti o il consiglio notarile dal quale dipendono.

Questo prevede, in linea di massima, il codice di rito a proposito dell'individuazione del giudice competente ad emettere l'ingiunzione di pagamento; sembrerebbe, ad una prima lettura, che la norma non ammetta eccezioni. Al contrario, però, l'eccezione si trova nel Codice del Consumo a proposito dell'individuazione del giudice competente a conoscere la domanda giudiziale promossa - ad esempio - da un avvocato nei confronti del proprio assistito, allorché quest'ultimo si sia rivolto al professionista come "persona fisica / consumatore".
In questo caso, infatti, prevale la competenza territoriale esclusiva del foro del consumatore a prescindere dal luogo dove si trova l'Ordine cui è iscritto l'avvocato, ovvero dove si è svolta l'attività procuratoria in ragione della quale si pretende il pagamento degli onorari.

Sulla prevalenza del foro del consumatore (foro esclusivo) rispetto a quello alternativo del luogo dove si trova l'albo professionale cui l'avvocato è iscritto ed individuato dal terzo comma dell'art. 637 c.p.c., si è di recente pronunciata la quinta sezione civile del Tribunale di Milano, che con la Sentenza n.1415/2016 dd. 20/01/2016 (pubblicata il 02/02/2016) ha accolto l'eccezione di nullità del decreto ingiuntivo sollevata dagli opponenti, un D.I. emesso dallo stesso Tribunale poi dichiarato territorialmente incompente a conoscere il ricorso introduttivo promosso da un avvocato che lamentava il mancato pagamento dei propri onorari.

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, gli opponenti TIZIO e CAIA avevano lamentato in via preliminare l'incompetenza teritoriale del tribunale milanese adìto dall'avvocato SEMPRONIO, in quanto essi si erano rivolti al professionista come consumatori; ed essendo loro residenti in un'altra regione d'Italia, avevano eccepito che giudice competente a conoscere la domanda sarebbe dovuto essere quello della città dove avevano stabilito la propria residenza. In conseguenza di quest'eccezione, oltre alla declaratoria d'incompetenza chiedevano al giudice dell'opposizione di revocare il decreto ingiuntivo, ovvero in subordine la rimessione degli atti al giudice individuato come competente.

A questo riguardo si segnala che per costante orientamento della Suprmea Corte di Cassazione "(...) nel procedimento d'ingiunzione promosso da un avvocato al fine di ottenere dal proprio cliente  il pagamento di competenze professionali, ove quest'ultimo riveste la qualità di consumatore trova applicazione la regola del foro esclusivo del consumatore che prevale su quello alternativo speciale di cui all'art. 637 comma 3 c.p.c. (...)" (ex multis Cass. civ. Sez. VI dd. 12/01/2015 n.181; Cass. civ. Sez. VI dd. 12/03/2014 n.5703; Cass. civ. Sez. III dd. 09/06/2011, n.12685; Cass. civ. Sez. VI dd. 16/02/2012, n. 2270).

Il giudice dell'opposizione nel caso di specie non si è limitato, però, ad accertare e dichiarare l'incompetenza territoriale del tribunale milanese, ma ha anche provveduto a revocare in quanto nullo il decreto ingiuntivo emesso ab origine: il giudice, infatti, ha rilevato che "(...) la pronuncia d'incompetenza ad emetere il decreto, e la conseguente declaratoria di nullità di esso, costituisce esercizio e non diniego della competenza funzionale ed inderogabile del giudice dell'opposizione. Ancora, come sottolineato dalla Corte di Cassazione, Sez. III, Ord. dd. 17/07/2009 n.16744 si deve ricordare che la predetta dichiarazione d'incompetenza del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo  - configurandosi il requisito della competenza come condizione di ammissibilità del decreto - determaina in ogni caso la sua caducazione, non necessitandosi di alcuna riassunzione dinnanzi al giudice individuato come competente, essendo poi onere delle parti valutare se proseguire o meno dinnanzi al giudice competente la controversia relativa alla sussistenza del creddito azionato in sede monitoria (...)".

Alla declaratoria d'incompetenza territoriale del giudice che aveva originariamente emesso il D.I., seguiva la revoca di quest'ultimo in quanto nullo senza rimessione degli atti al giudice individuato come competente, ed il professionista convenuto / opposto veniva condannato a rifondere le spese di lite sostenute dagli attori / opponenti in applicazione dell'art. 91 c.p.c.

(a cura di Avv. Luca Maria Conti).




 

giovedì 12 novembre 2015

L'AFFIDAMENTO DEI FIGLI DI COPPIE SEPARATE







LE REGOLE SULL'AFFIDAMENTO DEI FIGLI IN CASO DI SEPARAZIONE LEGALE O DI FATTO DEI GENITORI


Un problema di grande attualità per chi si occupa di diritto di famiglia e di tutela dei minori in caso di separazione legale di coppie sposate e di separazione di fatto delle coppie conviventi more uxorio riguarda l'affidamento dei figli.
Quali norme si applicano ed a quali criteri si devono attenere i giudici investiti delle cause di separazione, di divorzio o di separazione di fatto delle coppie non sposate?
A questa domanda risponde il Capo II del Libro I del codice civile, introdotto dall'art.7 del D. Lgs. 154/2013 che ha riordinato uniformemente la normativa in materia di filiazione: gli artt. 337 bis e ss. c.c. si applicano infatti ai procedimenti di separazione, divorzio, scioglimento degli effetti civili del matrimonio, annullamento, nullità del matrimonio e nei procedimenti relativi ai figli nati al di fuori del vincolo coniugale. In altri termini il legislatore ha inteso uniformare la disciplina che riguarda l'affidamento dei figli a prescindere che essi siano legittimi ovvero nati al di fuori del matrimonio.



RIFERIMENTI NORMATIVI E COMMENTARIO

Art. 337 ter c.c. (i provvedimenti riguardanti i figli) 

"Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, nei procedimenti di cui all’articolo 337-bis , il giudice adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, ivi compreso, in caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, l’affidamento familiare. All’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il giudice del merito e, nel caso di affidamento familiare, anche d’ufficio. A tal fine copia del provvedimento di affidamento è trasmessa, a cura del pubblico ministero, al giudice tutelare. La responsabilità genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all’istruzione, all’educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la responsabilità genitoriale separatamente. Qualora il genitore non si attenga alle condizioni dettate, il giudice valuterà detto comportamento anche al fine della modifica delle modalità di affidamento. Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:
1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
L'assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice. Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi".

Il più rilevante principio affermato dall'art. 337 ter c.c. riguarda il diritto di genitori e figli di conservare reciprocamente un equilibrato e continuativo rapporto, ponendo fine alla vecchia prassi che in buona sostanza distingueva tra genitori di seria A e genitori di serie B a seconda di chi esercitasse l'affidamento.
Con questa nuova impostazione entrambi i genitori sono posti sullo stesso piano, hanno pari diritti e pari doveri rispetto ai figli, ai quali è riconosciuto il diritto primario di conservare con entrambi e con le rispettive linee genitoriali un significativo rapporto. 

Il figlio ha diritto di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi i genitori e di conservare rapporti significativi con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
La norma si propone, dunque, di dare compiuta attuazione ad un principio già sancito dalla legge n.54/2006 che già all'epoca aveva parificato le due figure genitoriali, stabilendo che l'affidamento ad entrambi i genitori costituisce la regola mentre quello esclusivo ad un solo genitore costituisce l'eccezione.

Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice adotta i provvedimenti relativi ai figli con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di questi: ad esempio, con riguardo all'assegnazione della dimora coniugale il giudice dovrà tenere prioritariamente conto dell'interesse del figlio minorenne di restare nel proprio habitat naturale insieme al genitore col quale convive prevalentemente.  

Inoltre, il giudice deve valutare prioritariamente la possibilità che i figli restino affidati a entrambi i genitori, oppure stabilire a quale di essi i figli debbano essere affidati, determinando i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all'istruzione e all'educazione dei figli.

La responsabilità genitoriale (nel gergo legale ha sostituito la precedente locuzione di potestà genitoriale) è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione, alla salute e alla scelta della residenza abituale del minore sono assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. 
Stando a quanto precede, emerge che sia in sede di separazione dei coniugi, sia in caso di divorzio, sia con riguardo ai figli naturali nati fuori dal vincolo matrimoniale la cosiddetta RESPONSABILITA GENITORIALE deve essere sempre esercitata da entrambi i genitori, a prescindere dal fatto che essi non siano più conviventi: infatti, anche l'art. 317 bis c.c., che nella formulazione precedente la riforma con riguardo ai figli naturali stabiliva che la potestà genitoriale è esercitata dal genitore che ha riconosciuto il figlio e nel caso di cessazione della convivenza è esercitata solo dal genitore con cui il figlio convive, è stato interamente riformato ed il nuovo art. 316 c.c. stabilisce appunto che la responsabilità genitoriale spetta ad entrambi i genitori senza più riferimento al fatto che abbiano cessato di convivere.
Ma se l'affido condiviso è la regola, quando il giudice può stabilire che la prole sia affidata ad uno soltanto dei genitori? 
A questa domanda risponde l'art. 337 quater c.c. 



Art. 337 quater c.c. (l'affidamento dei figli ad un solo genitore)

"Il giudice può disporre l'affidamento dei figli ad uno soltanto dei genitori, qualora ritenga con provvedimento motivato che l'affidamento sia contrario all'interesse del minore.
Ciascun genitore può chiedere in qualsiasi momento l'affidamento esclusivo quando sussistono le condizioni indicate dal comma I. Il giudice, se accoglie la domanda, dispone l'affidamento esclusivo al genitore istante, facendo salvi per quanto possibile i diritti del minore stabiliti dal primo comma dell'art. 337 ter c.c. (...) Il genitore cui sono stati affidati i figli in via esclusiva, salva diversa disposizione del giudice, ha l'esercizio esclusivo della potestà genitoriale su di essi; egli deve attenersi alle condizioni stabilite dal giudice. Salvo che non sia diversamente stabilito le decisioni di maggiore interesse sono adottate da entrambi i genitori. Il genitore cui i figli non sono affidati ha il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e di ricorrere al giudice quando ritenga che sono assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse".   

Alla stregua della norma testè richiamata, si può tranquillamente affermare che l'ipotesi di un affidamento esclusivo nel vigente ordinamento è del tutto residuale e che ogni decisione in tal senso è subordinata ad una valutazione prognostica degli interessi del minore: se l'affido condiviso può essergli nocivo (situazione che si può concretizzare - ad esempio - nel caso di grave ed insanabile rapporto conflittuale tra i genitori, ovvero quando uno dei due genitori tenga un comportamento pregiudizievole per il figlio) si opta per l'affidamento esclusivo, se non addirittura in casi più estremi per l'affidamento ai servizi sociali. 

A quest'ultimo riguardo si riportano di seguito tutta una serie di casi pratici in cui di volta in volta la Corte di Cassazione ed i Tribunali territoriali hanno preferito l'affido esclusivo a quello condiviso:

a) in caso di elevata conflittualità tra i genitori tale da nuocere all’equilibrata crescita psicofisica della prole (Cass. civ. Sez. I dd. 29/03/2012, n.5108);

b) in caso di manifesta carenza o inidoneità educativa di un genitore, o comunque tale da rendere quell’affidamento in concreto pregiudizievole per il minore (Trib. Napoli, Sez. I, dd. 22/02/2012; Cass. civ., Sez. VI, dd. 07/12/2010, n.24841);

c) quando il minore manifesti difficoltà a relazionarsi con uno dei due genitori (Trib. di Messina, Sez. I, dd. 18/11/2011, n.2023);

d) quando l’affidamento non sia consentito dalla oggettiva distanza esistente tra i luoghi di residenza dei genitori (Cass. civ., Sez. VI, dd. 02/12/2010, n.24526);

e) quando uno dei due genitori abbia abbracciato una religione che si presenti destabilizzante per il minore stesso, prospettando un modello educativo tale da renderne impossibile una corretta socializzazione (Trib. Prato dd. 13/02/2009);

f) quando uno dei due genitori sia oggetto di procedimento penale per abusi o violenza su minore (Cass. civ., Sez. I, dd. 07/10/2010, n.24841);

g) quando la condotta del genitore, oltretutto privo di una propria dimora, tenga un comportamento tale da arrecare alla prole non lievi traumi e non lievi pregiudizi d'ordine psicologico (Cass. civ. Sez. I, dd. 29/03/2012, n.5108);

h) quando il padre per anni non versi alcun mantenimento per i figli ed eserciti con rilevante discontinuità il diritto di visita (Cass. civ., Sez. I, dd. 17/12/2009, n.26587).

Di particolare interesse è pure la sentenza  n.601/2003 pronunciata dalla Corte di Cassazione in materia di "affidamento esclusivo dei figli ad una coppia omosessuale", la quale ha stabilito che "l'affidamento del minore ad una madre separata ed alla sua compagna è da ritenersi legittima, sottolineando che non ci sono certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per l'equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppa omosessuale".

Fermo restando che il genitore unico affidatario dei figli è l'unico a poter esercitare la responsabilità genitoriale secondo le prescrizioni stabilite dal giudice, l'altro genitore non è del tutto esautorato della propria figura genitoriale, potendo esercitare un potere di controllo e di sorveglianza sulla crescita, sull'istruzione e sull'educazione dei figli e sulle decisioni che eccedono l'ordinaria amministrazione.



PRECEDENTI DI GIURISPRUDENZA A CONFRONTO

FAMIGLIA E FILIAZIONE - Filiazione in genere - Minori - Loro affidamento congiunto a entrambi i genitori - Effetti in relazione al mantenimento della prole.
L'affidamento congiunto dei figli a entrambi i genitori, previsto dalla legge sul divorzio, analogicamente applicabile anche alla separazione personale dei coniugi, è istituito che, in quanto fondato sull'esclusivo interesse del minore, non fa venir meno l'obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire, con la corresponsione di un assegno, al mantenimento dei figli, in relazione alle loro esigenze di vita, sulla base del contesto familiare e sociale di appartenenza, rimanendo per converso escluso che l'istituto stesso implichi, come conseguenza automatica, che ciascuno dei genitori debba provvedere paritariamente, in modo diretto e autonomo, alle predette esigenze (Cass. Civ. Sez. I dd. 01/07/2015, n.13504). 



FAMIGLIA E FILIAZIONE - Potestà dei genitori - Affidamento condiviso - Genitori - Interesse del minore - Pregiudizi - Affidamento esclusivo - Motivazione - Genitore affidatario - Idoneità.
Alla regola dell'affidamento condiviso dei figli ad entrambi i genitori può derogarsi se la sua applicazione risulti pregiudizievole per l'interesse del minore, con la duplice conseguenza che la pronuncia di affidamento esclusivo deve essere sorretta da una motivazione non solo in positivo sulla idoneità del genitore affidatario, ma anche in negativo sulla inidoneità educativa ovvero sulla manifesta carenza dell'altro genitore (Cass. Civ. Sez. I dd. 12/05/2015, n.9632).


FAMIGLIA E FILIAZIONE - Separazione e divorzio - Affidamento dei figli ad entrambi i genitori - Elevata conflittualità - Collocamento alternato a ciascun genitore - Ammissibilità - Mantenimento a carico diretto di ciascun genitore - Spese straordinarie - Ripartizione.
In tema di affidamento della figlia minore nel corso della separazione personale tra coniugi, l’esistenza di una forte conflittualità tra i genitori giustifica, nell’esclusivo interesse della minore, l’affido condiviso della stessa ai genitori e il collocamento alternato settimanale a rotazione annuale dei periodi presso gli stessi. A questo tipo di collocamento consegue l’obbligo per ciascun genitore di provvedere al mantenimento diretto della figlia nei periodi di rispettiva permanenza a eccezione per le spese di natura straordinaria che gravano sui genitori in parti uguali (Tribunale di Reggio Emilia, ord. 21/01/2015).


FAMIGLIA E FILIAZIONE - Matrimonio - Separazione personale dei coniugi - Effetti - Provvedimenti per i figli - In genere - Affidamento condiviso della prole (fattispecie antecedente il d.lgs. n. 154 del 2013) - Obbligo di contribuzione di uno dei genitori al mantenimento della prole - Persistenza - Contribuzione paritaria come conseguenza automatica dell'affidamento condiviso - Insussistenza.
In tema di separazione personale dei coniugi, l'affidamento condiviso dei figli minori, in quanto fondato sull'interesse esclusivo di questi ultimi, non elimina l'obbligo patrimoniale di uno dei genitori di contribuire alle esigenze di vita dei primi mediante la corresponsione di un assegno di mantenimento, ma non implica, come sua conseguenza "automatica", che ciascuno dei due genitori debba provvedere paritariamente, in modo diretto ed autonomo, alle predette esigenze (Cass. Civ. Sez. I dd. 10/12/2014, n.26060).


FAMIGLIA E FILIAZIONE - Maternità ed infanzia - Separazione - Affidamento della prole - Interesse del minore - Comportamento dei genitori - Conflittualità - Sviluppo psico-fisico dei figli - Pericolo.
Il provvedimento in materia di affidamento della prole deve essere adottato con riferimento all'interesse esclusivo della medesima, si richiede che siano desunti elementi di valutazione dal comportamento, anche processuale, di un genitore nei confronti dell'altro, di per se stesso privo di rilievo ai fini della relativa statuizione, ancorché sintomatico di aspra conflittualità, ove non risulti che la stessa ponga in serio pericolo (circostanza neppure indicata nel quesito) l'equilibrio e lo sviluppo psico-fisico dei figli, in maniera tale da pregiudicare il loro interesse (Cass. Civ. Sez. I dd. 31/03/2014, n.7477).



FAMIGLIA E FILIAZIONE - Affidamento della prole - Affidamento esclusivo - Con facoltà del genitore affidatario di porre in essere anche le scelte importanti nell'interesse dei minori - Sussiste - Affidamento esclusivo rafforzato - Art. 337 quater c.c.
Nel modulo di affidamento mono-genitoriale, il genitore cui sono affidati i figli ha l'esercizio esclusivo della responsabilità genitoriale su di essi; ciò nonostante, "le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori". L'esercizio concertato della responsabilità genitoriale, in ordine alle scelte più importanti (salute, educazione, istruzione, residenza abituale) può però trovare deroga giudiziale ("salvo che non sia diversamente stabilito"). Si tratta, in questi casi, si rimettere al genitore affidatario anche l'esercizio in via esclusiva della responsabilità genitoriale con riguardo alle questioni fondamentali. Questa concentrazione di genitorialità in capo a uno solo dei genitori non rappresenta, ovviamente, un provvedimento che incide sulla titolarità della responsabilità genitoriale, modificandone solo l'esercizio. Il genitore cui i figli non sono affidati ha, peraltro, sempre il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse (Tribunale di Milano, Sez. IX, dd. 20/03/2014). 

(a cura di Avv. Luca Maria Conti)